Nomadland // Elegia Americana

“At one time there was a social contract that if you played by the rules (went to school, got a job, and worked hard) everything would be fine. That’s no longer true today. You can do everything right, just the way society wants you to do it, and still end up broke, alone, and homeless.”

Avrei voluto scrivere subito dopo aver letto Nomadland tanto era l’entusiasmo suscitato in me da quel libro, da quel mondo “nuovo”, appena scoperto. Ma poi ho iniziato Elegia Americana e deciso di aspettare, sentivo che queste due esperienze sarebbero state in qualche modo connesse, che mi avrebbero alla fine regalato una riflessione più profonda su una nazione che tanto amo sotto certi aspetti quanto odio per molti altri. E avevo ragione.

Nomadland è stato un viaggio pazzesco e nella prima parte e per tutta la prima metà la mia intenzione era quella di aggregarmi seduta stante a quella ormai non tanto nuova famiglia su ruote. L’idea della libertà, di non dover rendere conto a nessuno ma soprattutto di spostarmi ogniqualvolta ne sentissi la necessità suonava anche troppo bella per essere vera.

Nomadland parla di un movimento in forte crescita a seguito della crisi del 2008 che ha colpito il ceto medio (ma non solo, come si legge nelle varie testimonianze raccontate nel libro) e il settore immobiliare più in generale. Chi contava su proprietà immobiliari o sulla propria abitazione come fonte di sicurezza per il futuro è rimasto con in mano praticamente nulla. Chi invece aveva optato per gli investimenti come forme di “pensionamento” privato si è trovato nella stessa situazione. Senza risparmi.

I nomadi che Jessica Bruder ha rincorso e conosciuto per ben tre anni sono per gran parte di età superiore ai 55 anni, spesso senza vera alternativa tra il pagare l’affitto e comprarsi da mangiare. Davanti a questa scelta le soluzioni non sono molte e smettere di pagare affitti e mutui andando ad abitare in case mobili e viaggiare per gli Stati Uniti in lungo e in largo in cerca di lavori temporanei – e non sempre adatti ai loro fisici non più giovanissimi – è sembrata a molti l’unica praticabile.

Conosciamo diversi personaggi insieme all’autrice, soprattutto Linda a cui è impossibile non affezionarsi. Il suo sogno? Creare la sua earthship in mezzo al deserto (dopo anni di risparmi riesce a comprare finalmente un appezzamento di terreno proprio al termine del racconto, sarei curiosa di sapere se ce l’ha fatta).
Per spiegarvi cosa sono le earthship prenderò in prestito le parole di wikipedia: “Le earthship sono una tipologia di case solari passive, con sistemi di riscaldamento e raffrescamento a energia zero, indipendenti dal punto di vista dell’approvvigionamento idrico ed energetico”. Nel caso di Linda il suo sogno è di costruire questa casa da zero, partendo da materiali riciclati e magari con l’aiuto di qualche altro nomade.

Già perché la cosa che più mi ha colpito di questo libro ed il motivo per cui mi darei a questa vita anche domani è il senso di comunità che ho trovato nelle sue pagine. I nomadi, che non amano definirsi senzatetto anche se formalmente, per la legge, lo sono, si trovano diverse volte l’anno, hanno appuntamenti fissi e blog in cui condividono le proprie esperienze dal punto di vista umano ma anche pratico. Da nomade qualsiasi cosa succeda al tuo mezzo / abitazione è qualcosa che devi sistemare il più in fretta possibile soprattutto se si tratta, ad esempio, del riscaldamento d’inverno. Mi è piaciuta molto questa disponibilità ad aiutarsi, la voglia di condividere ma allo stesso tempo il rispetto dell’altrui necessità di solitudine. 

L’autrice segue i nomadi – chiamati anche Workampers proprio per l’unione delle parole lavoratori e camper – anche in diversi lavori stagionali, iniziando da Linda che si appresta a cominciare il suo lavoro come responsabile di uno dei campeggi situati nei parchi nazionali della California, partecipa al periodo – breve ma devastante – della raccolta della barbabietola da zucchero e soprattutto al programma Camperforce, istituito per il periodo natalizio da Amazon per gestire il picco di ordini nei loro magazzini. Pur avendone sentite di ogni circa la il trattamento del personale Amazon mai avrei immaginato corridoi con distributori gratuiti di antidolorifici generici, l’impiego di persone oltre i settant’anni per turni massacranti di 12 ore che spesso lasciano strascichi anche per mesi. E’ una pratica molto comune quella descritta nel libro ma benché io sia certa che offra del sollievo garantendo uno stipendio a queste persone per due o tre mesi non posso che trovarla deplorevole.

Potreste rispondermi “è il consumismo, bellezza” e in effetti avreste ragione. Questo però non me la rende più digeribile.

Ed è qui che la mia opinione su quello che stavo leggendo è cambiata. E’ un libro stupendo, scritto davvero bene, ma non si può non provare alla fine un pò di tristezza nel realizzare che in quello che viene definito il paese più ricco del mondo sempre più persone magari dopo aver lavorato una vita si trovano a dover fare lavori massacranti e mal pagati vivendo in case su ruote che non possono parcheggiare più di due settimane nello stesso posto – dove è concesso, in città invece vivono con il terrore del “bussare al finestrino” da parte della polizia, che significa sgombero.

La visione romantica che avevo fino a metà libro della loro libertà, comunione e tutto sommato del loro ottimismo davanti alle avversità è di colpo svanita quando ho realizzato che in realtà non sono liberi. La dipendenza dalle convenzioni sociali che impongono ad esempio di avere un indirizzo fisso per esistere, l’inasprimento delle leggi che vogliono limitare questa pratica, la solitudine che diventa quasi pericolosa quando si arriva ad una certa età, sono cose che mi hanno rattristata profondamente. 

Ed è qui che arriva la connessione con “Elegia Americana” di JD Vance. 

JD è un ex ragazzino del Kentucky trapiantato come molti della sua generazione nella “rust belt” (gli stati americani che più hanno sofferto a seguito del declino delle acciaierie e delle miniere di carbone), nello specifico in una cittadina dell’Ohio.

La sua è una storia di povertà estrema, di un’America che non fa parte di nessun sogno e che non ha nessun sogno.
Una storia fatta di violenze, droga, alcool e infanzie finite molto presto. E’ la storia degli hillbilly, immigrati scozzesi e irlandesi delle zone rurali degli Appalachi, gente con la pelle dura e la testa ancora più dura. Famiglie allargate in cui ogni membro è fondamentale nonostante gli errori commessi – in questo libro vengono perdonati tutti, nonostante abbiano perpetrato le peggiori nefandezze, tranne una ragazza incinta di un ragazzo afroamericano.

Lo scrittore ora corrispondente CNN, avvocato, laureato a Yale è l’eccezione alla regola e questo è quello che cerca di spiegare in questo libro. C’è una fetta di popolazione che ha decisamente meno possibilità di riuscire a farsi strada nel mondo del lavoro, avere una carriera, persone a cui è preclusa la scalata sociale che è tanto l’emblema degli Stati Uniti d’America. Il chiunque può farcela, basta volerlo, qui non vale. L’infanzia finisce prima di cominciare e se non si hanno in famiglia persone forti che ti spingano ad eccellere sei destinato a fallire. Non ti prenderanno mai nel college giusto, non saprai nemmeno mangiare nel modo giusto e saprai ancor meno come vestirti per un colloquio.

Quello che Vance descrive è anche un popolo di cui poco si vuole parlare (se ci pensate, quante volte avete sentito parlare di afroamericani che approfittano del welfare? Quante volte invece di bianchi?) perché è meglio che rimanga nascosto dal momento che rovina l’immagine patinata della terra degli uomini liberi e coraggiosi. La sua è una storia straziante e se si pensa che di fatto è un’eccezione e che per decenni si è portato addosso quei traumi nella vita di tutti i giorni nonostante il successo avuto il pensiero delle altre decine o centinaia di migliaia che non ce l’hanno fatta lascia tramortiti.

L’Europa, sotto diversi punti di vista, offre molte più possibilità di crescita anche a cittadini con basso reddito. Uscire dalla propria classe sociale non è così impossibile anche se raggiungere gli stessi obbiettivi richiede maggiori sforzi per chi non ha una famiglia benestante a sostenerlo.

Quello che ho gradito meno del libro tuttavia è la palese omissione del razzismo imperante in quella fascia di popolazione. 

Ho scoperto successivamente alla lettura che è stato utilizzato per giustificare l’ascesa di Trump essendo uscito nel periodo della sua elezione. E’ possibile. Il populismo fa presa sull’ignoranza, determinati argomenti fomentano la rabbia di chi ha meno. 

Come accenna l’autore, la sola presenza di Obama e della sua bellissima famiglia ricca e affermata era un affronto per i bianchi poveri che hanno di conseguenza optato, dopo di lui, per l’uomo che prometteva di sanzionare le fabbriche che spostavano la produzione all’estero. Che prometteva di far tornare l’America grande.

Tra pochi giorni sapremo se hanno capito che non hanno mai avuto alcuna speranza di diventare grandi, men che meno di tornare ad esserlo.

Alejandro González Iñárritu // The Revenant

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Non ho studiato cinema.

Ho provato a leggerne e lo sto tutt’ora facendo, china su libri di studio che avrei tanto voluto utilizzare come chi me li ha prestati.

Invece no, nessuna scuola di cinema, solo tanta passione trasmessami da mio padre che fin da quando ero piccola mi ha permesso di vedere film che forse altri genitori non avrebbero ritenuto consoni.
Gliene sono grata e lo sarò sempre perché senza quei film, senza Kubrick che magari non capivo ma che mi portava a farmi delle domande, senza Coppola, senza le commedie degli anni 80, senza Meryl Streep Al Pacino De Niro e Dustin Hoffman forse non proverei per il cinema quello che provo ora.

Amore. Nel senso più puro del termine.

Amore per il cinema che, di riflesso, me lo fa riconoscere quando lo vedo sullo schermo Questo mi è capitato con The Revenant.

Ho sentito la potenza della passione di un regista per la sua opera, un regista che ha saputo comunicarla a tutti quelli che lavoravano con lui e che sono rimasti (non tutti, certo) nonostante la fatica, gli imprevisti e la durata “colossale” delle sue riprese.

La passione di Di Caprio per quello che è il SUO mestiere, ma nella sua performance e nella sua dedizione al progetto non c’è solo quello.

L’aspetto dello sfruttamento del nostro pianeta e delle sue risorse è un tema forte anche se forse bisogna scavare un po’ sotto la superficie per rendersene conto.
Uno dei dialoghi più sentiti del film è quello in cui “Elk Dog” trattando con i francesi dice “ci avete rubato tutto, ci avete rubato la terra, gli animali, tutto”. E’ importante perchè non solo è vero per i nativi americani per i quali è tutt’ora un dramma, ma è vero in tante altre parti del mondo. Questo film parla per la terra, a difesa della terra ed è lei una delle protagoniste del film.

Glass combatte contro di essa, rinasce, lotta, soffre. La terra diventa il grande ostacolo da superare per compiere la sua vendetta. La vendetta contro chi ha ucciso suo figlio (l’immenso Tom Hardy ), contro chi lo detesta perche non può concepire uno stile di vita lontano dal suo, quel mischiarsi con persone considerate inferiori, selvagge. La rabbia lo tiene in vita, non gli fa sentire il freddo, lo fa rinascere dalla morte presunta dopo essere stato quasi divorato da un Grizzly.

E’ una storia vera, pare, una di quelle leggende che hanno plasmato l’America di frontiera: prima di incontrare la natura selvaggia gli europei erano solo ospiti in cerca di tesori. Dopo averla accettata e fatta propria, sono diventati Americani.

Non lo nascondo, trovo The Revenant un film immenso.
La fotografia di Lubetzki è semplicemente perfetta, parte integrante del film.
In alcune scene si sostituisce ai dialoghi, ne fa parte, commuove. La scelta di utilizzare solo ed esclusivamente luce naturale rende quell’America primordiale ancora più reale e l’esperienza cinematografica (proprio come per Birdman) diventa imperativa per goderne appieno.

Un altro aspetto importante è, ovviamente, la vendetta. Ci sono un buono e un cattivo ma non è una vendetta alla Tarantino per intenderci, una vendetta che da soddisfazione e che è l’inizio di una nuova vita, una ripartenza. No, in questo caso Inarritu ci regala una vendetta cercata ossessivamente, faticosa al limite del surreale ma che, una volta compiuta, non lascia nulla se non il vuoto, la stanchezza e la solitudine. Glass non può ricominciare, non ha più suo figlio non ha sua moglie. Ha vinto, certo, ma cosa ha veramente conquistato?

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