JOKER

È un cinecomic? Una domanda che ci perseguita da mesi, come se fosse importante infilare il film in una categoria di modo da poterlo giudicare da una parte o dall’altra. A me non interessa. Probabilmente lo è, un cinecomic, si parla d’altronde di un personaggio di un fumetto DC.
Ma se dimenticassimo per un attimo che quel Joker viene fuori da un fumetto, se dimenticassimo che è già stato ritratto e bene più volte in precedenza?
Guardandolo non ho pensato al fumetto, non ho pensato a quello che so essere il percorso che seguirà. Fin dall’inizio mi sono trovata davanti l’immagine di una persona che per qualche ragione trovavo simile a me.

Joaquin Phoenix fa un lavoro straordinario come straordinario fu quello di Heath Ledger e come mi ha giustamente fatto notare un amico, mette una grande tristezza immaginare cosa avrebbe potuto fare lui con tutto questo spazio, questo spazio immenso, che è stato regalato a Phoenix in questo film.

Il film è fondamenalmente un ritratto, strettissimo (forse per qualcuno un po’ troppo stretto), di Arthur Fleck ovvero Joker prima di Joker. O fino all’inizio di Joker.
È una persona che soffre in qualsiasi momento della sua vita, che si trascina giorno dopo giorno sempre più piegato verso il basso, sempre più magro. Lo circonda la povertà, la malattia della madre e la sua malattia. Danni celebrali che poi scopriamo essere dovuti a violenze che portano attacchi violenti di risate anche quando non ci sarebbe niente da ridere. Attacchi imbarazzanti, invalidanti, recepiti dall’esterno, da persone che difficilmente si prendono la briga di scambiare un sorriso con uno sconosciuto, come strani e pericolosi, un fastidio da spegnere come fosse una radio. E lui ci prova, a spegnersi, le scene in cui Joaquin Phoenix prova a smettere di ridere e la risata si mischia al pianto fino quasi a soffocarlo sono state per me le più difficili da affrontare. Quelle durante le quali mi sarei girata per non guardare. Perché una delle frasi che più mi hanno colpito del film è “The worst part of having a mental illness is people expect you to behave as if you don’t.” Esattamente. La malattia mentale è vista spesso e volentieri come una questione di mancanza di volontà, di mancanza di impegno per guarire come se una persona con il cancro venisse accusata di non impegnarsi abbastanza. Inconcepibile no? Perché quindi dovrebbe essere diverso per la depressione o altre patologie legate alla salute mentale?
Ma lo è.
E forse sarà che la cosa un po’ mi coinvolge, questa domanda Joaquin Phoenix te la spara dritta in faccia per tutto il film ed è la parte di questo personaggio con cui mi è difficile non empatizzare.

La normalità, questa fastidiosa normalità che lo spinge ad inventarsi una vita che non ha, una carriera a cui non può aspirare. A chiedersi se forse la sua morte avrebbe più senso della sua vita (“I hope my death will make more cents than my life”, cents che si pronuncia in modo simile a sense).

Ma poi scopre ciò che gli è stato nascosto per tutta la vita e che lo lega indissolubilmente a Batman e da lì parte la sua spirale discendente in cui l’odio nei confronti di un mondo che l’ha rifiutato e che rifiuta il suo sorriso deridendolo si tramuta in violenza cieca, feroce, irrefrenabile. Ma proprio nel bel mezzo di questa trasformazione c’è una scena poetica, un tributo a chi ha ispirato forse la performance di Phoenix ovvero Charlie Chaplin. Buio in sala, Arthur che vestito da maschera del teatro osserva una scena di “Tempi Moderni” e sorride, estasiato. Le citazioni che riguardano Chaplin non finiscono qui, con l’utilizzo di Smile nella colonna sonora, come già detto in alcune movenze di Phoenix e negli ultimissimi secondi della pellicola.

Il film è bello, simile a Dark Knight sotto diversi aspetti. Ne ho amato molto, a parte ovviamente la performance enorme di Joaquin Phoenix, fotografia e montaggio e la colonna sonora a tratti inaspettata. Un quasi capolavoro, perché difetti ne ha e forse proprio legati all’inevitabile confronto con Nolan.

Sul finale le citazioni e la presenza di Ledger si sentono in modo pesante, nelle inquadrature di lui nella macchina della polizia è impossibile non vedere Heath con la testa fuori dal finestrino e i capelli mossi dal vento, con lo stesso inquietante e libero sorriso.

“La vita è una tragedia se vista in primo piano, ma una commedia in campo lungo”
Charlie Chaplin

The Danish Girl // Tom Hooper

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E’ vero, durante l’ultima mezz’ora di film e per una buona dopo ho pianto singhiozzando come non mi succedeva da tempo al cinema.
Questo mi ha indotta a pensare, uscita dalla sala con una certa confusione in testa che il film dovesse dunque essermi piaciuto. Per forza, altrimenti non avrei avuto quella reazione.

Ma non ne ero convinta, c’era qualcosa che mancava. Mi sentivo quasi ricattata da Hooper e ho deciso quindi di riflettere e analizzare quanto avevo visto mettendo da parte le implicazioni emotive e sono arrivata alla conclusione che semplicemente ho pianto perché Hooper voleva che piangessi.
Mi sono fatta fregare dal sentimentalismo che permea tutto il film, dall’indubbia perfezione estetica, dall’insistente fino al fastidioso colonna sonora di Desplat (una delle sue peggiori).

Sono tra le persone che il libro da cui è tratto il film lo hanno letto e amato come pochi altri ma non ne farò un paragone dal punto di vista delle mancanze o degli adattamenti rispetto al film, lo farò piuttosto per quanto riguarda la differenza abissale tra la delicatezza alternata a ferocia con cui è trattata la storia.

The Danish Girl è basato sulla vera storia di Einer Wenegar, pittore danese sposato con Gerda Gottlieb che decide di affrontare da pioniere un intervento per uccidere quell’uomo che non riconosce non vuole essere e diventare a tutti gli effetti Lili, il suo vero io.

Le scenografie sono bellissime, così come lo è la fotografia che incornicia il percorso il Einer verso Lili e il rapporto con una moglie complice e amica (un’incredibileAlicia Vikander) in modo perfetto, forse troppo perfetto.
Quello che è più evidente infatti è la scelta di Hopper di rendere questo film un melodramma patinato che presenta una storia nella quale non fa immergere completamente lo spettatore, lasciando tutto in superficie. Una bellissima superficie per carità, ma nient’altro.
Come molti dei film degli ultimi tempi che tendono a puntare all’oscar un po’ facile usando le interpretazioni (La teoria del tutto ne è un esempio lampante, grandissima performance per un film banale e superficiale) degli attori, anche The Danish Girl mette da parte la storia, la profondità dei personaggi, le sfumature per puntare tutto sulle performances concentrando momenti drammatici ed esasperando alcune volte eventi minori sacrificandone altri che aiuterebbero maggiormente a comprendere una transizione lunga e complessa come è stata quella di Lili.

E gli va bene almeno per quanto riguarda Alicia Vikander che è la vera sorpresa e quella che meriterebbe di essere premiata ovunque, Eddie Redmayne Invece alterna momenti altissimi di intensità (la scena in cui va ad osservare una donna nuda in uno spettacolo a pagamento copiandone i movimenti o quando scopre il suo corpo davanti allo specchio nascondendone la parte che detesta sono esempi di quello che il film poteva essere ma non è) a smorfie esagerate soprattutto dal momento in cui Lili prende definitivamente il posto di Einar.

Ma per il resto Hooper non cerca neanche lontanamente di farci provare il dolore di Einar e nasconde il percorso che porta alla definitiva presa di coscienza dietro ad un semplice travestimento, al tocco di una calza di seta e un paio di scarpe troppo strette, un modo di rappresentare la realtà che definire didascalico è un eufemismo. Un modo di rappresentare la realtà facile da capire per tutti senza bisogno di alcuno sforzo che si nasconde anche dietro a dialoghi e battute al limite dell’accettabile, il tutto per rendere BELLO qualcosa che dannazione, non lo è per niente. E non è nemmeno divertente, benchè nella sala in cui ho visto il film gli spettatori ridessero ripetutamente in momenti che avrebbero dovuto essere tutto tranne che esilaranti.

Forse nelle mani di un regista più coraggioso, soprattutto in un anno come questo in cui la televisione (con Transparent e Laverne Cox in Orange is the New Black ad esempio) ha come sempre più spesso succede anticipato i tempi e aperto la strada al cinema affrontando la tematica transgender, questa storia sarebbe stata trattata con il dovuto rispetto, senza ricorrere ad espedienti e abbellimenti non necessari, mostrando la brutalità di un processo lungo e doloroso e avrebbe forse evitato la banalità di un finale con metafora telefonata che questa storia non meritava.