Pure Mourning

Think of two people, living together day after day, year after year, in this small space, standing elbow to elbow cooking at the same small stove, squeezing past each other on the narrow stairs, shaving in front of the same small bathroom mirror, constantly jogging, jostling, bumping against each other’s bodies by mistake or on purpose, sensually, aggressively, awkwardly, impatiently, in rage or in love – think what deep though invisible tracks they must leave, everywhere, behind them!― Christopher Isherwood, A Single Man

Una delle cose che meno sopporto nella vita e che più passa il tempo più mi diventa intollerabile è quando sentendo parlare una persona eterosessuale viene fuori con la più totale leggerezza la frase “ma sì, alla fine siamo nel 20.., viviamo nello stesso mondo e siamo tutti uguali”. Certo non arriva ai livelli di fastidio di chi per convincerti della propria apertura mentale sbandiera “sacchi” di amicizie omosessuali come se questo fosse garanzia di intelligenza o comprensione e poi alla prima occasione usa le parole normalità e accettazione come se non fossero gli insulti che sono in realtà, ma ci va vicinissimo.

Ci sono giorni in cui non ci si pensa, va detto. Siamo piuttosto sereni anche noi generalmente, ci divertiamo un sacco e almeno per quanto mi riguarda non passo il tempo ad intristirmi circa la mia condizione perché l’ho sempre vista come una forza, come un valore aggiunto su cui costruire qualcosa invece di usarla per nascordemici dietro. E c’è la vita di tutti i giorni, il lavoro, l’amore, che ti impediscono di concentrarti sempre sui massimi sistemi per fortuna o purtroppo e quando semplicemente si vive si fa poco caso alle differenze che invece ci sono e sono enormi.
Ma ogni tanto succede qualcosa che ti riporta bruscamente alla realtà, succede che leggi un libro, vedi un film e tutto il peso della tua condizione si fa intollerabile.

Può accadere ad esempio che un brutto giorno ci si sveglia e muore qualcuno di famoso. Di tanto famoso, almeno da noi. Un poeta, un artista che ha accompagnato generazioni con alcune delle più belle canzoni della musica italiana e lo ha fatto trasmettendo genialità e poesia e quel pizzico di follia che le riunisce tutte e due. Un uomo a cui tutti volevano bene e che ha sempre fatto del bene in modo molto discreto e che andandosene si porta via addirittura un pezzo della città in cui ha abitato per tutta la vita.

Non sono mai stata interessata particolarmente alle voci sulla sessualità delle persone dello spettacolo perché ho sempre pensato che i gay abbiano il brutto vizio di vedere gay ovunque quindi, visto che non si tratta di un mio problema, semplicemente non ci credo finchè il personaggio in questione non lo dichiara apertamente.
Dunque non ho mai pensato alla sessualità di questo grande poeta, perché avrei dovuto? Avrei forse percepito diversamente ciò che mi ha sempre trasmesso, se lo avessi fatto? Ovviamente no, quindi “why bother?”
Durante i giorni che sono seguiti alla sua morte ho riletto i suoi testi, ascoltato le sue canzoni a cui ormai ero così abituata che spesso non facevo caso alla bellezza e alla profondità che vi si nascondeva dietro. All’amarezza a volte, la rabbia alternate a gioia e malinconia. Ho seguito la commozione della città che lo ricordava il giorno prima del suo funerale ma ieri avendo passato tutta la giornata fuori casa, una volta rientrata ho visto solo i vari servizi dei telegiornali, i commenti dei giornali e di twitter. E da lì le cose sembravano cambiate.

Non era più il poeta il protagonista della notizia, né lo era la sua arte. No. La cosa fondamentale ora era diventata una sola: come chiamare quell’uomo disperato che in lacrime lo ricordava davanti al mondo intero urlando grazie?
Dovremmo chiamarlo compagno, collaboratore, amico? La polemica sterile su quale delle tre opzioni avrebbe causato la maggiore ipocrisia non mi interessa e non è stato quello a turbarmi perchè se per una volta i media riescono nell’incredibile compito di non infangare un morto che aveva scelto di restare nell’ombra non sarò certo io a chiedergli di farlo e non capisco in tutta onestà chi da due giorni grida allo scandalo del mancato etichettamento giornalistico.

Quello che mi ha turbata e lo ha fatto profondamente è stato il provare mentre sentivo il suo discorso a mettermi nei suoi panni. Come poteva sentirsi? Al di là della sofferenza devastante per la perdita che era percepibile da chiunque non avesse un pezzo di ghiaccio nel petto, provava anche la sofferenza dovuta al silenzio?
E’ una questione soggettiva lo ammetto, perché io sono una persona che tende a sentire quasi un bisogno fisico di raccontare l’amore, condividerlo e leggerlo ma mettendomi nei suoi panni ho sentito immediatamente quella sofferenza che non so nemmeno se sia la sua, se la stia provando o no ma che per me è e sarebbe quasi assassina e ho pianto per quello, sentendo quel GRAZIE e poi i singhiozzi.

Mi è subito tornato alla mente A Singe Man (il film, che non mi è piaciuto, ma che ricordo molto meglio del libro, un meraviglioso insieme di tristezza e solitudine che all’epoca fu per me un pugno nello stomaco e non sono certa contenga questa parte) e in particolare l’episodio in cui il protagonista non può recarsi al funerale del suo compagno perchè la sua famiglia non lo invita. E subito dopo mi è venuto in mente uno degli episodi del film Women, il primo, in cui Vanessa Redgrave perde la compagna di tutta una vita all’improvviso e dal momento che tutto ciò che possedeva era intestato a lei la sua famiglia la caccia da casa sua e le porta via tutto. Tutto, anche i ricordi di una vita passata insieme, una vita a cui la famiglia non aveva mai preso parte.

La rabbia che provai la prima volta che vidi questo film ieri è tornata su insieme alla bile mentre pensavo a quell’uomo e all’eventualità che a lui del suo compagno non resti nulla. La Redgrave nel film passa tutta la notte in sala d’aspetto in attesa di notizie mentre la sua compagna muore perchè lei non è un familiare, e quindi non viene avvisata.

Non è un familiare.

Quando lo realizzi, ogni volta che lo fai, non puoi fare a meno di pensare che no, non siamo uguali proprio per niente perchè per noi il concetto di famiglia va ampliato, va inventato e rivisto e per come sono le cose ora non ci sarà mai nessuna famiglia al di fuori da quella che non abbiamo scelto, almeno legalmente.
Come possiamo essere uguali dunque? Negli Stati Uniti non mi sentirei così probabilmente, in questi giorni mi sentirei potente vedendo che uno dopo l’altro gli Stati dell’unione stanno accettando le proposte di legalizzazione del matrimonio omosessuale, mi sentirei cosciente che lì fuori da qualche parte c’è qualcuno a cui il mio futuro sta a cuore quanto sta a cuore a me. Ma qui no.
E’ facile dire che siamo tutti uguali finchè va tutto bene, finchè riuscite a trattenervi dal fare le battute idiote che vi vengono tanto naturali e che vi dovete imporre di frenare una volta che vi “sbattiamo in faccia”, vi “imponiamo” la nostra sessualità. Non mi sento uguale a voi che non vi battete per me e vi trincerate dietro cazzate tipo “la società non è pronta”. Siete voi che non siete pronti perchè avete una paura immotivata e irrazionale che il vostro primato inventato di unico concetto possibile di futuro e vita sia intaccato dal nostro amore.

Ieri però vedendo quel ragazzo ho avuto paura anche io. Dell’ignavia, del rassegnarmi, di darvela vinta senza aver combattuto, di provare vergogna, di nascondermi. Ho avuto paura di non vivere per paura, e di farlo dando la colpa a qualcun altro.
E se avere osservato da spettatrice quel dolore può avere un qualche lato positivo sarà questo: ho intenzione di combattere affinchè a me questo non accada.

Ciao Vik!

Mi piace chiamarti amico. Hermano. Fratello. Compagno.

La verità è che invece non ti ho mai conosciuto tanto quanto avrei voluto, e questa è una cosa che mi porterò dentro per sempre.

Ricorderò la sensazione assurda che provavo leggendo le tue mail.. ovvero che fossi tu a confortare noi, tranquilli nelle nostre case con i nostri lavori di scrivania e gli ideali nell’ipod. Noi che guardiamo il telegiornale, ci incazziamo una mezz’oretta e poi scarichiamo Grey’s Anatomy.
Oggi provo vergogna, per quella tranquillità.
Tu hai scelto di FARE, di essere lì di persona per dare sostegno a chi non può difendersi da solo, per difendere contadini, pescatori, bambini senza più una casa e una famiglia.

Con te oggi si è spenta una luce, una voce che ci arrivava fortissima ogni giorno e dava, a noi, speranza.
Speranza che l’umanità può esserci anche in ragazzi come noi che scelgono di privarsi di ricchezza e comodità per seguire qualcosa di più grande.
Speranza che un giorno forse avremmo vinto noi, grazie a te, gli uomini buoni, quelli che davanti all’ingiustizia devono far sentire la propria voce.
Il nostro ruolo da questa parte del mare era far sentire la tua voce sopra il chiasso del nulla, dello show ad ogni costo e della politica della vergogna ma anche e soprattutto di far sentire la tua voce nel silenzio delle coscienze. Andava male, spesso. Perchè non tutti sono disposti ad ascoltare e devo ammettere, è stato frustrante.

E’ questo il lato negativo della nostra scelta, del dire invece che del fare. Un lato negativo che oggi si è fatto insopportabile.

I tuoi post erano un raggio di sole anche quando descrivevi gli scenari più terrificanti, perchè la tua capacità di rendere le tue emozioni in parole era immensa e rara. Eri un poeta Vittorio, un poeta della guerriglia, un poeta senza paura, che sentiva i proiettili sfrecciare vicino e invece di scappare urlava a gran voce l’unica cosa che importava davvero: PALESTINA LIBERA.

Ad ogni costo. Era un costo troppo grande? Cambierà qualcosa? Sono domande inutili oggi, nel giorno in cui piangiamo la tua morte, ma benchè la rabbia sia grande almeno quanto il dolore è necessario che il più importante dei tuoi insegnamenti non venga dimenticato: RESTIAMO UMANI.

Noi continueremo a provarci, Vik, nel tuo nome. Magari qualcuno passerà dalla parte del fare e porterà a termine quello che tu hai cominciato. Perchè come diceva qualcuno, qualcuno di familiare e che un pò ti somigliava..

Se io muoio non piangere per me, fai quello che facevo io e continuerò vivendo in te.

Il mio 2010, secondo Facebook

La fantastica filosofia “più ti lamenti, più ti nascondo” applicata a me stessa medesima ha portato a intere settimane senza status che danno a questo “collage” l’aspetto di un riassunto di un anno normale, invece che l’inferno in terra.

E’ stato l’inferno solo sotto alcuni aspetti, però, che mi rifiuto di mettere al primo posto nel bilancio di questo 2010. Quindi no, diciamo pure che è stato un anno figo. Se si tralasciano la salute, le innumerevoli delusioni cinematografiche e il lavoro, direi che la bilancia pende nettamente dal lato positivo.

C’è stato un viaggio a Berlino assurdamente paiass che ha regalato uno dei più bei video della storia.

Un altro viaggio, a Parigi, che ha visto il record del minor numero di ore passate fuori dall’hotel.

Ci sono stati 3700 chilometri in 3 stati degli Stati Uniti, e un bel pò di sogni realizzati.

Un matrimonio, a Las Vegas, da sobria.

La patente, finalmente.

E la Dolly, l’acquisto migliore che io abbia mai fatto in vita mia.

Ci sono stati concerti, un discreto numero e tutti più o meno decenti.

I punti fermi della mia vita sono rimasti tali, e i pezzi che ho perso per strada era giusto facessero quella fine probabilmente.

C’è stato Ritorno al Futuro al cinema.

E poi c’è stata Gaga! Che siccome merita un discorso a parte, merita anche un Year in Status a parte che spiega tutto meglio di come farei io.

 

Remembering 1998

Ci sono diversi motivi che mi spingono a considerare il 1998 l’anno migliore tra quelli che ho vissuto “coscientemente” (perchè ovviamente l’anno migliore in generale sarebbe il 1987, senza neanche pensarci) e tutti questi motivi portano irrimediabilmente alla Vecchia.

La Vecchia per eccellenza, la Madre Putativa, la donna più amata e odiata allo stesso tempo, che mi ha cambiato l’esistenza (in meglio? forse) e fatto scoprire cose che non avrei mai avuto la curiosità di approfondire.

Insomma Lei. Madonna.

– Stavo per scrivere M-Dolla, vi rendete conto? Questo intendevo con “amata e odiata”, perchè sti scempi tamarri ancora devo perdonarglieli. –

Il mio fanatismo in realtà è risale al 1996, con l’acquisto della colonna sonora di Evita e conseguente distruzione della cassettina doppia, già dopo poco tempo senza più le scritte. Poi vidi il film, e quel cinema fu testimone della mia folgorazione… e se penso al fatto che la persona con cui andai a vederlo mi sfanculò tempo dopo proprio per questa “ossessione” mi viene da ridere.

Una passione che dovetti vivere da sola però, lottando contro i pregiudizi e litigando costantemente con compagni di classe e amici come si usa fare durante l’adolescenza (ehm.. in alcuni casi si continua a farlo anche dopo) quasi che gli insulti a lei rivolti fossero una cosa personale. E non è bello vivere le passioni da soli, soprattutto a quell’età, quindi quando nel settembre del 1998 scoprii che si sarebbe tenuto un tributo in una nota discoteca di Milano, una domenica pomeriggio.. non potei far altro che far stampare una t-shirt con il mio servizio (Versace 95) preferito e presentarmi all’appello.

Ho qualche vuoto circa gli eventi che mi hanno portata lì quel giorno, ricordo solo la fila di giovani madonnari, il Picture Disc di Erotica e la prima volta che vidi Sex con i miei occhi. I remix sconosciuti e la fatica di fingere di saper ballare. La depressione di dover andare via presto per non perdere l’ultimo bus e l’ancora più grande depressione del giorno dopo quando ancora una volta ero sola ad ascoltare Ray of Light senza nessuno con cui poter parlare di che meraviglia fosse Skin.

L’anno era quello di Ray of Light appunto, e questo è un altro motivo per cui rimpiangere il 1998: l’uscita di quello che forse è il disco pop più bello della storia della musica.

Qualche giorno o settimana dopo quel tributo ricevetti la prima di tante telefonate, ed era la telefonata di uno dei ragazzi incontrati lì che proponeva di organizzare un’uscita, in Duomo, un sabato pomeriggio.

Quello fu l’inizio della compagnia della scalinata di palazzo reale… una settimana ad aspettare con ansia ore che sembravano passare in secondi, spese interamente a parlare di lei, e parlarne ancora ancora e ancora.

Il nostro numero cresceva di settimana in settimana, non ricordo chi esattamente si occupasse del reclutamento ma all’epoca veniva facile, e senza cellulari, email o facebook anche tirare i pacchi all’ultimo minuto era un pò più difficile e le defezioni erano cosa rara.

Quasi contemporaneamente venimmo tutti a sapere dell'”evento”. Per chi era fan di Madonna da dopo il 93 o quell’anno era semplicemente troppo piccolo si realizzava un sogno: Madonna, in Italia. Anzi meglio, a Milano!

L’occasione era la serata degli MTV Europe Music Awards che quell’anno si sarebbero tenuti proprio a Milano, e Madonna si sarebbe esibita. La data, di quelle da incidere sul marmo,  è il 12 Novembre 1998.

Prendere i biglietti fu un incubo che ricordo ancora come fosse ieri. Niente ticketone, niente internet ma non solo: i biglietti erano acquistabili solo telefonicamente e non presso le solite rivendite. Chiamai per un paio d’ore consecutive trovando sempre occupato e alla fine fu mio padre a prendere la linea al secondo tentativo. Incredibilmente  tutto il gruppo riuscii a prendere i bigliettie ci trovammo armati di sacchetti di viveri fuori dal forum di Assago all’alba di una gelida mattina di novembre.

Al cancello sbagliato però, scoprimmo più tardi, quando ci venne comunicato che non era lì la fila per il parterre.

– Ah no? E dove sarebbe?

– Lì.

Iniziammo a correre, una volta primi davanti al cancello e ora disperatamente dietro. Ci rimettemmo in fila quando….

-Ehm, no, non è neanche questo il cancello.

Replica della scena precedente con tanto di bestemmie, perchè provate ad immaginare un enorme gruppo di fans indemoniati sbattuti da una parte all’altra e costretti a circumnavigare il forum di Assago non alle 7 di mattina, appena arrivati, bensì nel primo pomeriggio quando ormai si avevano svariate ore di coda alle spalle e soprattutto facendo perdere ai primi il posto faticosamente conquistato.

– La mia “prima settimana Madonnara” era cominciata il mercoledì a dire il vero, con l’appostamento fuori dal Principe di Savoia (un delirio inimmaginabile, tutte le star nello stesso albergo = fan di tutti i tipi che si sfidano a suon di cori per ore…e ore…. e ore) , appostamento infruttuoso in quanto lei non mise mai il naso fuori dall’hotel. –

Eccoci lì dunque il giorno successivo, in piedi dal primo pomeriggio e invitati ad indietreggiare quando era già difficile stare in piedi, in fila davanti ad un cancello alto poche decine di centimetri che lasciava presagire quello che sarebbe successo: i cancelli si aprono, la prima fila che era seduta rimane seduta e schiacciata dalla folla. Entrammo e io lanciai il biglietto al povero cristo addetto al controllo perchè la situazione, come sempre in Italia, si faceva pericolosa e a 16 anni l’idea di morire spiattellata sul linoleum del forum non mi attraeva particolarmente. Insieme ai possessori del biglietto però pare siano entrate altre 3000 persone come era facilmente prevedibile quindi dentro, nel parterre, era l’inferno.

Guadagno con un amico la quarta fila, gli altri sono un pò più in la ma spostarsi è impossibile.

Il rumore:  terrificante.

Poco dopo l’inizio dello show vengono premiate le Spice Girls, e nel momento stesso in cui gli viene consegnato il premio ho giusto il tempo di alzare gli occhi prima di essere sollevata e spostata di 3 metri sulla destra. E’ arrivata, gli spettatori a casa non se ne accorgono ma tutto il forum di Assago sì: è delirio.

Non ho mai più sentito in vita mia, nonostante le decine di concerti a cui ho assistito, un casino simile. Un costante, ininterrotto e altissimo grido, più di 10 anni di attesa concentrati in un’esibizione di pochi minuti.

Tento di cantare ma dopo un paio di strofe smetto di lottare e lascio che le lacrime prendano il sopravvento, l’emozione di vederla è immensa e i miei piedi non toccano terra per tutta la canzone. Inutile dire che la canzone lì sotto non l’ha sentita nessuno e probabilmente non l’ha sentita nemmeno lei a giudicare dall’esito, ma dubito che qualcuno fosse interessato.

Appena lascia il palco decido che per me è abbastanza, come primo parterre è decisamente troppo e non mi interessa guardare altro da quella posizione. Dovevo fare abbastanza schifo, con le lacrime e la scritta sciolta sulla faccia perchè uscendo gli sguardi di pena si sprecano.

Del resto della serata ricordo poco, ricordo di sicuro le lacrime durante Daysleeper, le premiazioni di chiunque anticipate dal suo nome scandito come solo noi italiani sappiamo fare: tre sillabe, decise, MA-DON-NA.  Mi apposto sotto il podio delle premiazioni e lì la vediamo apparire ancora un paio di volte, accompagnata dal medesimo urlo collettivo compresso che tutt’ora riesco a spiegare con difficoltà e che ha del surreale.

Lei resterà a Milano fino a sabato, quindi il venerdì niente scuola e si continua con gli altri l’appostamento davanti al Principe di Savoia. Quando esce sembro posseduta dal demonio (provo ancora vergogna) e credo di aver fatto talmente tanto casino da essermi persa l’uscita vera e propria. Progredisco nella figura di merda rincorrendo la macchina con la bandiera del Blond Ambition intorno al collo come Batman e riesco a farmi dare una manata sulla faccia da una bodyguard prima di rovinare a terra e perdere una scarpa. Oh, the memories.

Sarà l’emozione, o più probabilmente i 3 giorni passati all’aperto con temperature polari, ma il giorno dopo mi sveglio con la febbre quindi mi perdo l’ultima uscita con applauso e  soprattutto la visita da McDonald’s che cambierà per sempre la storia della compagnia della Scalinata.

Aumentiamo esponenzialmente di numero infatti, e da lì le uscite diventano sempre più memorabili e le sessualità sempre più incerte.

Già, perchè se c’è una cosa inevitabile (devo ancora trovare qualcuno che mi provi il contrario) è che mettendo insieme un gruppo di fan di Madonna l’esito sarà la tempesta ormonale. Non che lei ci avesse rivelato niente di nuovo, le idee probilmente le avevamo tutti chiare dall’inizio, ma ci fece sentire liberi. Di esprimerci per ciò che eravamo, di vivere ciò che sentivamo. E il suo coraggio divenne anche il nostro.

Per me fu un cambiamento radicale ed è questo che rende il mio legame impossibile da sciogliere, perchè per quello che mi ha fatta diventare non posso fare altro che ringraziarla per l’eternità.

Bene, questa è paura. Allontanati. Distaccati. Staccati.

 

 

Sono un pò snob con i libri. Un pò parecchio, devo dire. Snob circa gli autori più che altro, difficilmente riesco a prendere un libro a caso in libreria basandomi solo sul passaparola o sulla frase di lancio, nonostante in alcuni casi trovi anche interessante la trama; soprattutto se questo magnifico libro lo hanno letto TUTTI e ancora di più ti dicono che LO DEVI LEGGERE, in quei casi, il rifiuto è totale e assoluto.  L’unica volta in cui ho ignorato questo rifiuto è stato con “L’Alchimista”, e dio, ancora me ne pento.

Quindi niente Faletti per me, niente Fabio Volo. Niente Solitudine dei Numeri primi o le altre decine di depressioni di trentenni che ultimamente sembrano le uniche cose pubblicate insieme ai vampiri e alle teen ager ninfomani.

Ma ogni tanto mi lascio convincere dall’entusiasmo di qualche amico,  come in questo caso,  e a volte, per una strana coincidenza, capita che QUELLO sia il libro che proprio in quel momento sembra scritto per te.

E così è stato. Non sono una grande fan dei libri che ti spiegano il senso della vita, o che più che altro se ne inventano uno, nè di quelli che dicono l’ovvio e lo vendono come un segreto per una vita migliore. Considero ad esempio la versione “easy” della Kabbalah (quella che ci è stata propinata negli ultimi anni, non quella vera che va studiata e compresa ma quella tutta “luce & fatepaceebene”)  parte  di questa categoria di libri.

Insomma non riesco a farmi dire da un libro “devi essere una brava persona” e poi dargliene il merito.

Questo libro, parzialmente, fa parte di questa categoria: ti dice quello che vorresti sentirti dire.  Ma senza la presunzione di proclamare al mondo la verità assoluta, e senza l’arrogante promessa di poterti  cambiare la  vita che invece hanno gli altri.

Si tratta di una storia vera,  del racconto degli incontri dell’autore con un suo vecchio professore dell’università, Morrie Schwartz.  Non si sentono nè si vedono per 16 anni nonostante siano stati molto legati, e il motivo che spinge Mitch ad andare a trovare il vecchio professore è una sua apparizione in televisione, intervistato da uno dei più famosi anchorman della tv Usa. Già, perchè nonostante la sua cultura, la sua saggezza e le sue doti di insegnante, Morrie scatena la curiosità e l’interesse del mondo perchè sta morendo.

Ha la SLA, è certo della sua morte ed è altrettanto certo però di non voler morire lasciandosi dietro rimpianti, saluti mancati, nè mesi di autocommiserazione. Così vede più gente possibile, e tra queste persone c’è anche Mitch, che nel frattempo è diventato un importante cronista sportivo. Si incontrano ogni martedì perchè “sono gente da martedì”, come amano ripetersi, e parlano di tutto, argomenti che sceglie Mitch, la vita, la morte, l’amore, la famiglia.

Mi sono identificata molto in tutti e due, a  volte era anche difficile decidere all’interno dello stesso dialogo con quale dei due mi trovavo più d’accordo.. con Mitch, che insegue la carriera, i soldi, il “di più” in qualsiasi cosa.. o con Morrie, il vecchio professore morente?

Molto spesso mi era più naturale immedesimarsi in Morrie. Perchè sebbene io non stia morendo (non nell’immediato, quantomeno) , come dice Morrie ci sono avvenimenti che ti cambiano talmente tanto che ti è impossibile tornare la persona che eri, perchè non puoi, perchè qualcosa si è rotto rispetto al mondo esterno e perchè, a volte, non vuoi.

La malattia ti cambia, finisci con il giudicare più pesantemente le persone e i loro lamenti senza senso, diventi più intollerante. Ti arrabbi più facilmente, perchè il male rende nervosi. Cominci a pretendere di più e contemporaneamente a restare maggiormente deluso. Ti stanchi, e poi rinunci a spiegare perchè non puoi fare determinate cose… perchè non è che non vuoi, non puoi.

E rischi di diventare una persona cattiva. Io credo di averlo evitato, e spero di evitarlo in futuro, nonostante non sia altro che un’altra cosa da aggiungere alla lista “Cose contro le quali lottare”. C’è un passaggio in particolare che mi ha fatto realizzare che no, non so se non lo sarò in futuro ma di sicuro ora non sono una persona cattiva.

Fece una pausa, poi mi fissò. “Io sto morendo, no?”

Già.

“Perchè credi sia importante per me ascoltare i problemi degli altri? Non ho abbastanza sofferenza e dolore di mio? – Certo!! Ma dare agli altri è quello che mi fa sentire vivo. Di sicuro non la mia macchina o la mia casa. Nè quel che vedo allo specchio. Offrire il mio tempo,  far sorridere qualcuno che prima era triste, è quanto di più vicino a sentirmi sano io potrò mai provare”

 

E infatti è proprio nei giorni in cui non ce la fai a far ridere, a dare conforto, che smetti di vivere. Il problema è che spesso è volentieri non smetti di vivere solo per te stesso ma anche per (quasi – per fortuna) tutti quelli che ti circondano. Perchè li hai abituati bene. Li hai abituati a te. Vi ho abituati a me.

Questa è quella che sono però, e sono orgogliosa di essere tanto simile a Morrie e di avere ancora un pò di tempo davanti per poterlo dimostrare.

Freaks or Geeks?

Ancora una volta i miei ringraziamenti vanno all’Admin aka Commodus per questa magnifica scoperta. Innanzitutto, come sempre, è entrato in un tunnel, l’ha decorato, e ci ha invitati tutti dentro a prendere un tè. Il tunnel era quello di James Franco e per quanto mi riguarda entrarci è stato facile, ne ero già stata completamente conquistata guardando Milk anche se poi non avevo approfondito, e a farmici rimanere per costruirne uno tutto mio ci ha pensato lui, il suddetto admin.

Andando a scovare una perlona nascosta, almeno a noi italiani visto che qui non è mai andata in onda, una serie tv che ha avuto poca fortuna anche in patria visto che è durata una sola stagione (1999 / 2000) : Freaks and Geeks.

La serie, innanzitutto, è ambientata all’inizio degli anni 80, e i dettagli sono così curati che questa cosa l’ho scoperta solo dopo aver visto le prime due puntate e cercando info in merito (certo magari se avessi fatto due calcoli considerando l’età di Franco ci sarei arrivata anche prima) perchè guardandola si ha la sensazione di essere risucchiati dagli anni 80, dai loro colori (o mancanza di essi), il mood, le serie tv, i vestiti…. tutto insomma.  Tra i protagonisti della serie, a parte Franco, c’è Linda Cardellini (che ricordo bravissima in ER) e la trama si svolge proprio intorno a lei e a suo fratello e ai rispettivi gruppi di amici.

Freaks and geeks appunto.

Ora, il mio amore spassionato va ad occhi chiusi ai geeks, vuoi per la tenerezza da sfigato che a guardarli gli si vuole bene per forza, con quegli occhiali assurdi e la balbuzie da ansia costante di essere chiusi dentro ad un armadietto davanti alla ragazza più bella della scuola, vuoi per il poster autografato di Steve Martin appeso alla porta…. vuoi anche solo per questa semplice battuta:

Stasera non posso, c’è Dallas.

A questo punto, ho deposto le armi e mi sono dichiarata conquistata da una delle serie più ingiustamente ignorate dalla storia!

Ma se il mio amore / simpatia / tenerezza va a loro però, una menzione d’onore la merita senz’altro la figaggine immensa e assoluta di James Franco in fattanza perenne.  Una vera meraviglia, ricorda un pò Dean e un pò Phoenix, con quell’aura di brutto sporco cattivo dal quale va bene anche solo farsi sfruttare per i compiti di matematica o farsi trombare quando lo si vede ubriaco e incapace di intendere, a scelta. I suoi compagni di avventure sono abbastanza ignorabili per il momento (anche se il fan dei Led Zeppelin promette benissimo), la sua ragazza (che chi ha visto Dawson’s Creek ricorda come uno dei personaggi più interessanti e vivi dell’intera serie) è fastidiosa come un vecchietto che scatarra quando stai per bere il cappuccino, ma sento che con il tempo migliorerà.

Il personaggio di Lindsey / Cardellini invece devo ancora inquadrarlo, per il momento non ho capito bene dove vogliano portarlo ma ripeto, c’è margine per l’adorazione! I presupposti ci sono tutti, bella sceneggiatura, dettagli curatissimi, fotografia splendida e cosa che non ho menzionato ma a cui va dato il giusto peso: LA COLONNA SONORA!!! Un solo indizio: la sigla è Bad Reputation.

Che aspettate dunque, scaricate scaricate scaricate!

Gagafied, in Paris.

Fino a qualche giorno fa sembrava pura utopia. Andare a Parigi, viaggiare, camminare, e soprattutto vedere due concerti dopo due delle settimane più terrificanti della mia vita più che un sogno a tratti mi è parso un incubo.

Già perchè che fare, rifugiarsi nella comodità del letto e del riposo pressochè totale e rinunciare a qualche soldo ma con una buona scusa…… oppure armarsi di coraggio, correre qualche rischio e coronare mesi di delirio e crescente passione andando in pellegrinaggio a Bercy?

Ci sono stati momenti di panico devo ammettere, dato che fino a mercoledì una rampa di scale era la morte, ma per quanto mi riguarda, la decisione non poteva essere che partire.

Se avessi impedito al mio fisico di permettermi di fare ciò che desidero sarei morta civilmente 4 anni fa, ma avere il padre che ho me l’ha PROIBITO. Dimentica, me lo dice sempre. E se te ne succede una peggio, dimentica anche quella e vai avanti. E così ho fatto, fortunatamente, perchè due giorni lontani dalle sicurezze domestiche, in una rilassante Parigi primaverile, due serate che se sommate accumulano più sforzo fisico che tutti gli ultimi sei mesi messi insieme, sono serviti più di qualsiasi ricostituente e ansiolitico in commercio.

Le due serate, dunque. Qui lascio parlare il mio compagno di viaggio il caro Diego, il quale oltre che supportarmi come meglio non avrebbe potuto ha scritto anche la più bella recensione di un concerto che mi sia capitato di leggere da parecchio tempo a questa parte, non avrei saputo fare di meglio e in ogni caso avrei ripetuto ogni singola parola.

Bhè cosa dire? Sinceramente: un concerto, anzi due, anzi esagero, un tour che ho amato.
Ma amato di brutto!

E non solo perché per la prima volta vedevo la Germy dal vivo, con i suoi dentini e i suoi capelli color evidenziatore. Ma proprio in assoluto, un vero spettacolo in piena regola. Dalle canzoni, agli arrangiamenti, le luci, le scene, le coreografie deliranti, i balletti, i discorsi acchiappapubblico…

Non so cosa si potrebbe obiettare, e lo dico cercando pure di limitare l’entusiasmo di questa due giorni germanotteschi in quel di Parigi.

Della serie: siete andati in Francia, cosa avete visto?
La gaga.
E poi?
La gaga.

Laughing Laughing Laughing

Quello che subito pensi non appena inizia il concerto è che la Lady ha già capito e azzeccato non dico tutto ma praticamente il 90% di quello che ha fatto. E ci sono le prove palesi. Ha già una sua gestualità, un modo di muoversi, di cantare e di esibirsi che è definibile. Lo stile gaga se vogliamo, quello che caratterizza un artista da miglia di distanza. Lo si capisce subito, da Dance in the dark, che apre lo show. Praticamente per buona metà della canzone della Stefani non vediamo che l’ombra. Dietro un telo semitrasparente, arrampicata su una scala. Illuminata da dietro, è una sagoma nera che si staglia sul pubblico. Sta quasi ferma per tutto l’inizio, inizia a cantare e al primo ritornello zac, fa un veloce movimento di bacino, si gira un po’ e tira fuori l’artiglio da little monster.
E il pubblico impazzisce, esulta, la chiama, la riconosce. Non guardandola neppure, senza aver visto come avrà i capelli o che costume assurdo potrebbe avere addosso. Solo dopo si alza il telo circolare che avvolge il palco e la vedi, gli occhiali d’ordinanza, i vestiti spaziali, le tutine e i ballerini che iniziano a dimenarsi, le scritte al neon che invadono la Gaga City e lei che con calma inizia a scendere le scale. Ti bastano 10 secondi per inquadrarla, poi inizi a cantare con lei, a saltare e a seguirla con lo sguardo.

Si mette subito a gridare e cattura il pubblico già adorante: se siete liberi, stasera qui a Parigi sarete SUPERFREEE, non importa da dove venite, cosa pensate o quanti soldi avete in tasca. Stasera potete essere qualunque cosa voi vogliate essere e fare qualsiasi cosa desideriate fare. Ci chiama petit monster, in continuazione. Dice un sacco di frasi in francese. Ci saluta e ci ringrazia incessantemente.

And the best thing about the Monster Ball is that i created it so my fans have a place to go… A place where all the freaks are outside and i lock the fucking doors. It don’t matter who you are, where you come from, or how much money you got in your pocket because tonight and every other after night you could be who ever is that you want to be…

Difficile forse trovare all’inizio una coerenza perfetta che tenga insieme il tutto, ma alla fine Gaga ci riesce (pure questa) e il quadro si completa: il Monsterball tour è una sorta di viaggio, un percorso a tappe che facciamo (noi, poerchè siamo continuamente coinvolti) in una sorta di paese degli orrori / meraviglie, una Gaga in wonderland se vogliamo, che unisce il grottesco e il delirante con una buona dose del mago di Oz. Come una Dorothy folle e iperattiva, e anche un po’ come la strega del Nord, Gaga ci fa seguire non la strada di mattoni gialli ma la glitter way che si illumina ad un suo segnale. Afferra uno scettro, una sorta di disco stick versione XL e tra le luci soffuse di Bercy lo accende come una enorme torcia, un faro, e ci illumina come ad indicare la strada. Facendoci ovviamente urlare senza freno, sottointeso.

Viene anche portata via da una tromba d’aria.

Oh, what’s that thing way up in the sky? It’s very beautiful but very strange. Is it rainbow? No. Ohh, I don’t feel so well. Little Monster .. Oh no it’s a twister!! mugugna come una bambina triste, mentre gli schermi la avvolgono e lei spunta dopo poco con addosso un vestito candido da fatina con tanto di ali, innalzandosi sul pubblico.

Uno show che dura 2 ore abbondanti, senza troppe pause, continui cambi d’abito, scenografie pazzesche e soprattutto tanta, tantissima improvvisazione. Sia musicale, al piano, dove si vede che è libera di fare quello che gli gira, pure suonare Stand by me, sia con le parole.
Lady Gaga parla tantissimo, fa mille discorsi e altrettanti ringraziamenti e il bello è che comunica anche stando in silenzio. Quando si blocca al termine di una canzone con i dentini da regina dei monster, le gengive in evidenza e la faccia corrucciata, sta in silenzio per minuti, ma tutto intorno è il boato. Quando si mette a cantare a testa in giù sulle scale, idem. Fissa il palazzetto stracolmo al contrario, con i capelli che cadono a terra, le calze scucite e una macchia di sangue sul collo, magari dicendo banalità tipo Non ho mai amato i soldi per poi aggiungere Grazie mille a voi che avete preso il biglietto per il io spettacolo stasera! , ed è nuovamente vincente.

Non ho mai sentito una cantante ringraziare così tante volte il suo pubblico, la città che la ospita, in un continuo di I love you so much Paris, today is the liberacioooon, you are the petit monsteeer, invitando a tendere un alto la manina ad artiglio. PAWS UP. Noi che eravamo in tribuna abbiamo visto alzare le unghie in alto a bambine, cinni, coppie adulte e una marea di finocchie.
Appunto, le finocchie. La ciliegina sulla torta: per terminare l’opera cosa manca? Un ringraziamento, semplicemente. Per cui, prima di intonare Boys boys boys circondata da ballerini sculettanti e ovviamente finocchioni, con pacchi posticci e superdotati, Gaga chiede aiuto ai suoi deepest and the loyal firends: the french gay boys!
Minchia, un terremoto. Shocked Laughing

FAVOLOSA.
Ha una personalità incredibile.

Si butta a terra e, dopo un po’ di fiato, strepita I’m like Tinkerbell, I need applause to live! E ancora un momento di puro delirio fanatico. Dice che agli inizi della sua carriera le dicevano che non era brava abbastanza, bella abbastanza, che non scriveva abbastanza bene le canzoni o che non suonava, che non ce l’avrebbe mai fatta. Ma lei ha mandato tutti a fare in culo perché voleva diventare una star. E ce l’ha fatta.

L’avventura prosegue tra interlude che sembrano videoinstallazioni di arte moderna, una clip bondage e con maschera di lattice, fontane e angeli, una parte centrale da pelle d’oca al pianoforte. Brown Eyes e Speechless sono a dir poco da lacrima, seriamente.
A suonare in piedi, piegata a 90, intonando le ultime note coi tacchi e saltando sui tasti, usando i premi vinti come dildo o con allusioni sessuali a cock o double penetration, qualsiasi follia non intacca la potenza emotiva del pezzo acustico e la sua voce dal vivo è incredibile.

Alla fine arriva il nemico da abbattere. Nelle fattezze di una creature degli abissi è lui, The Fame Monster in persona che cerca di catturare la Germy con i tentacoli. Lei ci chiama in aiuto: solo i flash delle macchine fotografiche possono sconfiggerlo, scattate foto little monsters! Fino al colpo di grazia: la gaga con uno dei suoi “simboli” caratterizzanti, reggiseno e mutande esplosive. Bon nuit!

Ovviamente manca il gran finale, che dico, il finale ENORME. Basta un ooooohh ooooh e praticamente siamo tutti sotto stupefacenti in tempo zero. Entrambe le sere dopo averla amata entrare in scena negli anelli rotanti, praticamente me la sono un po’ persa da tanto ero preso a urlare, ballare, muovermi, guardare intorno il delirio che coinvolgeva tutti. Una figata pazzesca, si. Bad romance è POTENTISSIMA.

Come si dice: quando un filmato rende più di mille parole. Eccoci.


Concludendo: uno spettacolo clamoroso, a 24 anni, un album e mezzo all’attivo, vagonate di premi e questo tour. Mondiale.

Gaga rulez.

“I hate… the truth. Infact, I hate the truth so much, I’d prefer a giant dose of bullshit anyday over the truth.”

This is Our Religion // One Year Later

Ci sono persone per le quali il cinema è un passatempo, un modo per passare il sabato sera senza sbattersi per scegliere un locale o qualcos’altro da fare. Queste persone vedono film a caso, in base a cosa trovano nel loro multisala di riferimento, parlano per tutto il film, o si danno di lingua o giocano con il cellulare. Poi ci sono i “cinefili delle feste”, ovvero quelli che vanno al cinema solo a natale per il cinepanettone, a san valentino, a pasqua… quelli che intasano le sale e si beccano maledizioni a pioggia da parte dei membri della terza categoria.

Ovvero, quelli per cui il cinema è una religione.

Quelli che programmano sulla base de “I 100 FILM” di Ciak la loro stagione cinematografica, con tanto di date sul calendario e organizzazione logistica per incastrare due o tre film in un week end, quelli che possono aspettare un film per tre anni seguendone ogni progresso e ritardo e vivendo come un evento storico l’uscita finale nelle sale.

Quelli che sono un po’ snob, e ogni anno scoprono con orgoglio di avere visto al cinema i 10 film con meno incassi, ma si concedono anche dei “guilty pleasures”, quei film un po’ stupidi, un po’ imbarazzanti, ma che servono a bilanciare e a tirare su il morale dopo magari 3 week end consecutivi di devastazione cinematografica.

Io faccio parte di quest’ultima categoria, che questa settimana ha vissuto il suo Natale, la sua Hannukkah, il suo Ramadan, ovvero l’evento tanto atteso quanto rimpianto subito dopo, l’unico modo di vedere per noi che siamo così lontani tutte le nostre divinità insieme, l’evento studiato per mesi e preparato con missioni nei cinema più sperduti per reperire IL MAGGIOR NUMERO POSSIBILE DI FILM NOMINATI perché sia mai che si giudichi senza aver visto.. tutto questo, è la notte degli Oscar.

Io sono stata piuttosto fortunata, mio padre aveva, quando ero piccola, una videoteca, e dunque eravamo pieni di videocassette in luoghi dove famiglie normali terrebbero bicchieri di cristallo, piatti, soprammobili e quant’altro e questo mi ha permesso di vedere e di conoscere da autodidatta un numero di cose sul cinema sufficiente ad appassionarmene, ad innamorarmene.

Ovviamente, data la sua passione, mio padre fu uno dei primi abbonati dell’allora TELEPIU’, altra opportunità per me di vedere oltre che tutti i film possibili e immaginabili, di vederli in lingua originale in un epoca in cui era impensabile, e soprattutto….. di assistere alla notte degli oscar.

Per anni ho passato nottate solitarie circondata di qualsiasi cosa potesse aiutarmi a stare sveglia… cibo, blocchi per gli appunti dove scrivere nominati e vincitori, caffè, alcune volte andando a lavorare senza andare a dormire, andando a scuola senza andare a dormire perché gli Oscar, visti in replica, non hanno senso.

Quest’anno invece per la prima volta la notte degli Oscar è stata una vera e propria celebrazione, un qualcosa che ricorderò probabilmente per tutta la vita.

Quattro amici, quattro religiosi del cinema, un’attesa di mesi, e finalmente la nottata dove tutto diventa realtà. Risate, delirio, delusioni e gioie inaspettate date da cose che per persone “normali” possono essere insignificanti.. come un filmato montato sui miglior film che diventa un susseguirsi commosso di “oooooooooohhhhh”, un’apparizione a sorpresa di Nicole che viene accolta da urla isteriche non appena su un mega schermo appare il suo volto in The hours, la vittoria di Sean Penn, ogni singola inquadratura della Meryl accompagnata da un “OH CHE MERAVIGLIA”.

E’ stata la notte degli Oscar come l’avevo sempre sognata (subito sotto in quanto a preferenze a quella ON SITE, che probabilmente resterà solo un sogno) e quella più bella, per ora, con tanto di ballottaggi e fogli elegantemente stampati dove apporre le proprie preferenze, abbracci foto e pane e nutella, e colgo l’occasione per ringraziare i presenti: Beps, Paliacia Filia e Uzzo.

Tutto questo per rendere meglio l’idea di chi siano i membri della terza categoria di cui sopra, quelli che del cinema vivono, e questa suddivisione mi è venuta in mente questa sera, mentre in metropolitana tornavo a casa dall’ufficio, tutta la linea rossa ovvero un viaggio eterno se non si ha niente da fare e io, per fortuna, ho l’iPhone.

Oggi, ad esempio, guardavo “Eva contro Eva”, e mi sono resa conto durante la parte “I’m fed up of both the young lady AND her qualities” che stavo puntando il dito contro quello seduto di fronte a me che mi guardava con uno sguardo sconcertato, e li ho pensato a quante altre volte mi è capitato di usare una battuta, un gesto, uno sguardo, rubato al cinema.

Può capitare di essere davanti ad un teatro, a New York, e mentre aspetti che esca Kristin Scott Thomas guardi con sdegno i cacciatori di autografi e sprezzante sussurri “Authograph fiends, they’re not people” senza che ti sia possibile fermarti.

Oppure mentre un’amica ti parla di qualche fidanzato, cercando di farlo sembrare un essere umano dopo averti invece riempito la testa di dettagli da uomo di Neanderthal, Ouiser Boudreaux si impossessa di te e ti trovi a pensare “E’ un perfetto gentiluomo, scommetto che toglie i piatti dall’acquaio prima di pisciarci dentro!” mentre tenti di rimanere seria offrendo la tua disinteressata opinione sul soggetto in questione.

E le volte in cui mi fermo a pensare qualcosa, e inevitabilmente con l’indice inizio a picchiettarmi le labbra come la Meryl in the Hours… beh The Hours è un discorso a parte. Chi non ha distrutto uova su uova tentando di utilizzare la procedura della Meryl per dividere tuorlo da albume? Chi non ripete la domanda “Ginger, Madam?” ogni volta che la parola zenzero viene pronunciata per qualsiasi motivo?

Ricordo che una volta tempo fa, parlando con mia madre del lavoro che stavo cercando, la guardai e dissi “Vuoi vedermi lavorare come cucitrice?!? è questo che vuoi???” direttamente da Titanic, e senza neanche rendermene conto.

E il Signore degli Anelli… ogni bastone, compreso quello della scopa, è buono per essere piantato per terra urlando TU… NON PUOI…. PASSAREEEEEEEEEEE! … Il mio teSSSSoro no, troppo banale, ma certamente è capitato di essere in ritardo e dire “Uno stregone non è mai in ritardo, Frodo Baggins. Nè in anticipo. Arriva precisamente quando intende farlo.”, o salire in macchina e dire “Corri, Ombromanto. Mostraci cosa significa “fretta”.

E ce ne sarebbero a decine, davvero, dal “sycamore” con la pronuncia di Annette Bening in American Beauty che non si potrebbe usare in nessuna occasione ma ogni albero in fondo assomiglia ad un sicomoro, al finale di Sunset Boulevard, il caricatore di Apocalypse Now picchiato sul casco da riprodurre durante ogni visione, il “Non sapevo facessero pile di merda così alte” rivolto a Platinette, “il pranzo è per chi non ha niente da fare” da Wall Street e “GRANDE GIOVE” detto obbligatoriamente con sguardo folle.

Ma soprattutto, chi non aspetta da tutta una vita l’occasione giusta per pronunciare finalmente, appoggiato ad una ringhiera e con lo sguardo che corre sui presenti dall’alto spargendo terrore..

“Fasten your seatbelts, it’s going to be a bumpy night”.