Think of two people, living together day after day, year after year, in this small space, standing elbow to elbow cooking at the same small stove, squeezing past each other on the narrow stairs, shaving in front of the same small bathroom mirror, constantly jogging, jostling, bumping against each other’s bodies by mistake or on purpose, sensually, aggressively, awkwardly, impatiently, in rage or in love – think what deep though invisible tracks they must leave, everywhere, behind them!― Christopher Isherwood, A Single Man
Una delle cose che meno sopporto nella vita e che più passa il tempo più mi diventa intollerabile è quando sentendo parlare una persona eterosessuale viene fuori con la più totale leggerezza la frase “ma sì, alla fine siamo nel 20.., viviamo nello stesso mondo e siamo tutti uguali”. Certo non arriva ai livelli di fastidio di chi per convincerti della propria apertura mentale sbandiera “sacchi” di amicizie omosessuali come se questo fosse garanzia di intelligenza o comprensione e poi alla prima occasione usa le parole normalità e accettazione come se non fossero gli insulti che sono in realtà, ma ci va vicinissimo.
Ci sono giorni in cui non ci si pensa, va detto. Siamo piuttosto sereni anche noi generalmente, ci divertiamo un sacco e almeno per quanto mi riguarda non passo il tempo ad intristirmi circa la mia condizione perché l’ho sempre vista come una forza, come un valore aggiunto su cui costruire qualcosa invece di usarla per nascordemici dietro. E c’è la vita di tutti i giorni, il lavoro, l’amore, che ti impediscono di concentrarti sempre sui massimi sistemi per fortuna o purtroppo e quando semplicemente si vive si fa poco caso alle differenze che invece ci sono e sono enormi.
Ma ogni tanto succede qualcosa che ti riporta bruscamente alla realtà, succede che leggi un libro, vedi un film e tutto il peso della tua condizione si fa intollerabile.
Può accadere ad esempio che un brutto giorno ci si sveglia e muore qualcuno di famoso. Di tanto famoso, almeno da noi. Un poeta, un artista che ha accompagnato generazioni con alcune delle più belle canzoni della musica italiana e lo ha fatto trasmettendo genialità e poesia e quel pizzico di follia che le riunisce tutte e due. Un uomo a cui tutti volevano bene e che ha sempre fatto del bene in modo molto discreto e che andandosene si porta via addirittura un pezzo della città in cui ha abitato per tutta la vita.
Non sono mai stata interessata particolarmente alle voci sulla sessualità delle persone dello spettacolo perché ho sempre pensato che i gay abbiano il brutto vizio di vedere gay ovunque quindi, visto che non si tratta di un mio problema, semplicemente non ci credo finchè il personaggio in questione non lo dichiara apertamente.
Dunque non ho mai pensato alla sessualità di questo grande poeta, perché avrei dovuto? Avrei forse percepito diversamente ciò che mi ha sempre trasmesso, se lo avessi fatto? Ovviamente no, quindi “why bother?”
Durante i giorni che sono seguiti alla sua morte ho riletto i suoi testi, ascoltato le sue canzoni a cui ormai ero così abituata che spesso non facevo caso alla bellezza e alla profondità che vi si nascondeva dietro. All’amarezza a volte, la rabbia alternate a gioia e malinconia. Ho seguito la commozione della città che lo ricordava il giorno prima del suo funerale ma ieri avendo passato tutta la giornata fuori casa, una volta rientrata ho visto solo i vari servizi dei telegiornali, i commenti dei giornali e di twitter. E da lì le cose sembravano cambiate.
Non era più il poeta il protagonista della notizia, né lo era la sua arte. No. La cosa fondamentale ora era diventata una sola: come chiamare quell’uomo disperato che in lacrime lo ricordava davanti al mondo intero urlando grazie?
Dovremmo chiamarlo compagno, collaboratore, amico? La polemica sterile su quale delle tre opzioni avrebbe causato la maggiore ipocrisia non mi interessa e non è stato quello a turbarmi perchè se per una volta i media riescono nell’incredibile compito di non infangare un morto che aveva scelto di restare nell’ombra non sarò certo io a chiedergli di farlo e non capisco in tutta onestà chi da due giorni grida allo scandalo del mancato etichettamento giornalistico.
Quello che mi ha turbata e lo ha fatto profondamente è stato il provare mentre sentivo il suo discorso a mettermi nei suoi panni. Come poteva sentirsi? Al di là della sofferenza devastante per la perdita che era percepibile da chiunque non avesse un pezzo di ghiaccio nel petto, provava anche la sofferenza dovuta al silenzio?
E’ una questione soggettiva lo ammetto, perché io sono una persona che tende a sentire quasi un bisogno fisico di raccontare l’amore, condividerlo e leggerlo ma mettendomi nei suoi panni ho sentito immediatamente quella sofferenza che non so nemmeno se sia la sua, se la stia provando o no ma che per me è e sarebbe quasi assassina e ho pianto per quello, sentendo quel GRAZIE e poi i singhiozzi.
Mi è subito tornato alla mente A Singe Man (il film, che non mi è piaciuto, ma che ricordo molto meglio del libro, un meraviglioso insieme di tristezza e solitudine che all’epoca fu per me un pugno nello stomaco e non sono certa contenga questa parte) e in particolare l’episodio in cui il protagonista non può recarsi al funerale del suo compagno perchè la sua famiglia non lo invita. E subito dopo mi è venuto in mente uno degli episodi del film Women, il primo, in cui Vanessa Redgrave perde la compagna di tutta una vita all’improvviso e dal momento che tutto ciò che possedeva era intestato a lei la sua famiglia la caccia da casa sua e le porta via tutto. Tutto, anche i ricordi di una vita passata insieme, una vita a cui la famiglia non aveva mai preso parte.
La rabbia che provai la prima volta che vidi questo film ieri è tornata su insieme alla bile mentre pensavo a quell’uomo e all’eventualità che a lui del suo compagno non resti nulla. La Redgrave nel film passa tutta la notte in sala d’aspetto in attesa di notizie mentre la sua compagna muore perchè lei non è un familiare, e quindi non viene avvisata.
Non è un familiare.
Quando lo realizzi, ogni volta che lo fai, non puoi fare a meno di pensare che no, non siamo uguali proprio per niente perchè per noi il concetto di famiglia va ampliato, va inventato e rivisto e per come sono le cose ora non ci sarà mai nessuna famiglia al di fuori da quella che non abbiamo scelto, almeno legalmente.
Come possiamo essere uguali dunque? Negli Stati Uniti non mi sentirei così probabilmente, in questi giorni mi sentirei potente vedendo che uno dopo l’altro gli Stati dell’unione stanno accettando le proposte di legalizzazione del matrimonio omosessuale, mi sentirei cosciente che lì fuori da qualche parte c’è qualcuno a cui il mio futuro sta a cuore quanto sta a cuore a me. Ma qui no.
E’ facile dire che siamo tutti uguali finchè va tutto bene, finchè riuscite a trattenervi dal fare le battute idiote che vi vengono tanto naturali e che vi dovete imporre di frenare una volta che vi “sbattiamo in faccia”, vi “imponiamo” la nostra sessualità. Non mi sento uguale a voi che non vi battete per me e vi trincerate dietro cazzate tipo “la società non è pronta”. Siete voi che non siete pronti perchè avete una paura immotivata e irrazionale che il vostro primato inventato di unico concetto possibile di futuro e vita sia intaccato dal nostro amore.
Ieri però vedendo quel ragazzo ho avuto paura anche io. Dell’ignavia, del rassegnarmi, di darvela vinta senza aver combattuto, di provare vergogna, di nascondermi. Ho avuto paura di non vivere per paura, e di farlo dando la colpa a qualcun altro.
E se avere osservato da spettatrice quel dolore può avere un qualche lato positivo sarà questo: ho intenzione di combattere affinchè a me questo non accada.