Mal d’America.

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Ho il mal d’America.

Ho sempre sentito parlare del mal d’Africa, ma del mal d’America mai.

E intendo America del Nord, Stati Uniti, lo dico per i puristi che “l’America è tutto il continente”. Lo so, ma dire “Ho il mal d’America del Nord” non è proprio la stessa cosa, non credete?

Io ce l’ho, ne sono certa. Credo di avere tutti i sintomi, se esistono.

Tipo inziare ora, nel mese di dicembre, a pianificare il viaggio successivo.
Tipo iniziare conversazioni random con la frase “Eh.. ma in America” e continuandole come le nonne ovvero “il latte costa meno.. la benzina costa meno… gli alberghi costano meno… il cibo costa meno….”

In America scopri che quella degli italiani ospitali è una menzogna. Loro sono sinceramente gentili. Se sei fermo come un pirla in mezzo alla strada fissando, che so, il vapore che esce da un tombino, l’americano non ti urla contro “fora di ball” ma ti chiede se hai bisogno di indicazioni. E se ti servono, cosa che sembrerà assurda a voi stronzi che sogghignate dopo aver mandato un turista a Palestro invece che in Piazza Castello, te le da giuste, a costo di accompagnarti a piedi.

Le cassiere iniziano le conversazioni con “salve, tutto bene?”, non con un grugnito seguito da “ce l’ha la fidaty?”. In America.
Certo hanno anche i serial killer in America ma si sa, in quel caso è colpa della madre che gli ha dato poco affetto da piccoli.. probabilmente perchè faceva la cassiera e lo dava tutto ai clienti.

In America in mezzo al deserto c’è un posto che consuma più elettricità della Lombardia, e in questo posto c’è una piccola Ny, Venezia, e c’è la Tour Eiffel. Ci sono la Piramide e la Sfinge. Perchè? Perchè non sono mica come noi che perdiamo interi stipendi in luridi bar di periferia, loro se devono diventare poveri almeno hanno bisogno dell’illusione di averlo fatto divertendosi. Possibilmente sposando totalmente ubriachi degli sconosciuti.

Sono obesi, ok, ma vuoi mettere la soddisfazione di non dover leggere tutte le mattine:  “La colazione ideale: 4 tarallucci, un bicchiere di latte e un frutto” sulla confezione dei biscotti? Lì ci sarà scritto un enorme “STI CAZZI, LIFE’S TOO SHORT NOT TO EAT BACON”.

Mi mancano tante cose degli USA, alcune veramente stupide come i supermercati che sono luna park se visti con i nostri occhi, altre così personali che a descriverle si fa una gran fatica.

Cosa si provi, ad esempio, quando si parte una mattina dalla sabbia del deserto e si riapre la portiera della macchina all’Inspiration Point a Bryce Canyon, a 2.500 metri.

O a sedersi sul bordo di uno dei punti di osservazione del Grand Canyon nella totale incapacità di pronunciare parole con un senso compiuto perchè tutto è troppo grande, troppo profondo, troppo libero. Arrivare fino a Desert View in una giornata dal cielo limpido con lo sguardo che si perde per chilometri verso l’orizzonte e quando si abbassa incontra il fiume Colorado che sembra così piccolo che ci si ferma a pensare: wow, certo che hai fatto proprio un bel casino. Sedersi su una panchina ad ascoltare il ranger aspettando il tramonto.

Schivare un serpente a sonagli, passeggiare con un cervo.

Ricoprirsi di sabbia rossa nella Monument Valley e scoprirsi esperti guidatori 4×4 perchè il pulmino scoperto fa troppo turista, pregando poi ad ogni buca che all’autonoleggio non ci facciano pagare i danni.

Il calore mai sentito della Valle della Morte a qualsiasi ora, quel brivido di terrore che ti percorre il corpo quando ti allontani dalla macchina e tra i 50 gradi e il vento pensi che non ce la farai a tornare. I 4 litri d’acqua bevuti in poche ore, nelle quali non hai incontrato nessuno, se no il più totale e assoluto e meraviglioso nulla. Zabriskie Point al tramonto. Il pensiero, nella sera in cui muore Neil Armstrong, che in un posto più vicino alla luna non potresti essere.

Guidare nel west.

Può sembrare una di quelle cose ingigantite dal mito, che poi che differenza potrà mai esserci, guidare è sempre guidare, a Cormano come a Kingman.
No.

Dai, che uno poi arriva lì e le strade sono tutte uguali in fondo, sai che palle.
Oh no.

Certo uno deve crescere con quel mito della polvere e delle strade senza tempo che gli scorre nelle vene al posto del sangue per capire la necessità di prendere un aereo e dopo una media di 15 ore di volo fuggire a gambe levate dalla civiltà per finire nel nulla più assoluto, non è una cosa apprezzabile da tutti.

Ma per chi da questa malattia chiamata on the road è irrimediabilmente affetto, non c’è niente di più lontano dalla verità.

Nel west puoi guidare per 6 ore consecutive senza rendertene conto, ringraziando quelle che ti aspettavi essere delle noiosissime strade che continuano dritte per l’eternità, perchè grazie a loro puoi guardarti intorno con gridolini di meraviglia e fotografarle ad ogni microcambiamento senza rischiare di sfracellarti contro qualcosa. E’ l’unico posto in cui non parlare, in macchina, è a volte inevitabile. E’ il posto in cui quando partono Sweet Home Alabama e Take Me Home, Country Roads ci credi davvero, anche se sei in Arizona, nonostante il titolo della prima e nonostante la seconda dica “Almost heaven, west virginia, Blue ridge mountains, shenandoah river . Life is old there, older than the trees. Younger than the mountains, blowing like a breeze”. Insomma, la seconda parte va bene lo stesso, la prima è un dettaglio.

E’ difficile imbattersi contro alcunchè, in verità, ma il west è quel posto in cui il cielo prende vita e diventa qualcosa che fisseresti per sempre, non ti fa sentire nostalgia dell’umanità e ti permette di distaccarti dalla necessità della compagnia del cemento.

Il cielo. E’ enorme, sembra non finire mai, tanto che a guardarlo da sinistra a destra a volte se sei particolarmente fortunato capita di vederci 3 tipi di climi diversi: sole, pioggia, arcobaleno. Abbraccia la terra in un punto talmente lontano che è impossibile metterlo a fuoco.

Lo spazio. C’è tanto spazio nel west. C’è talmente tanto spazio che guidando abbastanza a lungo puoi tranquillamente girare un film nella tua testa mettendoci dentro qualsiasi cosa senza che questa venga intralciata dalla realtà. Il west è quel posto in cui puoi inventarti di tutto, e dimenticarti la tua vita.

Il tempo. Potrebbe essere il 1800, come il 2001. Guardando bene dietro una roccia potrebbe essere nascosto un indiano, ma dietro la collina ecco comparire un pannello solare. Non credo capiti molto spesso ai vecchietti nel west di dire “ah mi ricordo quando ero bambino e qui c’erano solo campi e nient’altro”, perchè lì è tutto come quando erano bambini. Spesso non sono cambiati neanche i diners che della loro immutata rozzezza vanno orgogliosi. Est. 1870 strillano le insegne ed è lì che il malato di America si fionda per un caffè, un pasto, una sosta.

Apre quelle porte sudice e malandate e trova quel classico pezzo country che suona al jukebox, proprio come ha sempre sognato, i divanetti di pelle uno di fronte all’altro e la cameriera incazzata che ti riempie la tazza, che essa sia piena oppure no poco importa.

Un approdo sicuro nell’immensità del deserto, ecco cosa sono i diners. Posti in cui puoi trovare la familiarità e il calore che quando tutto è così grande ti fanno una strana impressione, perchè sono cose che ti aspetteresti da quella provincia italiana fatta di case appoggiate l’una all’altra e parenti e chiacchiere, non in un luogo in cui il vicino più vicino dista un paio di km.

La polvere. Non mi è mai capitato di essere così contenta di essere sporca alla fine di una giornata, di sedermi per terra, salire su pietre dune sabbia con tanta disinvoltura, e contare i lividi con in bocca il sapore della vittoria. In America, succede. Succede ad esempio di camminare, scalare, scendere e salire più di quanto non si abbia fatto negli ultimi 5 anni messi insieme, perchè niente come l’America ti fa dire “ma sì, andiamo ancora un po’ più la”.

Poi questo “la” è talmente grande che ci si deve arrendere, purtroppo, almeno finchè saranno solo vacanze. Ma anche lì, l’America premia la tua fatica e sa salutarti a dovere.
Da un lato o dall’altro alla fine c’è sempre l’oceano ad attenderti per coccolarti prima di ripartire con le sue spiagge immense (e libere..), la gente sempre in costume, gli skateboard, il surf, le torrette dei bagnini. E’ sempre meglio passarlo lì l’ultimo tramonto americano, o almeno.. a me piace così.

Howl // L’Urlo

Ci ho messo un pò a maturare un’opinione su questo film e credo che il motivo sia che non è un film come tutti gli altri, nonostante nel trailer abbiano infilato scene del processo per  dare un senso di Biopic classico, per non allontanare spettatori probabilmente, che si sarebbero forse tenuti lontani se il film fosse stato descritto per ciò che è ovvero un lungo, poetico, confuso e meraviglioso grido.

Un insieme di cose, un flusso di pensieri costante, è storia, è voce, è musica, è animazione, proprio come tutte queste cose sono Howl, il poema di Ginsberg da cui è tratto.

E’ un film che regala ottimismo nonostante tutto, perchè non è passato molto tempo da quei giorni e forse ancora si può recuperare qualcosa di quello spirito e di quella libertà. Certo non siamo a San Francisco qui, e al contrario il nostro premier si premura di ricordare al suo popolo appena può che l’unica via giusta e corretta è quella della famiglia, dell’uomo e della donna che lavorano, comprano casa e producono prole.

Quello invece era il tempo delle idee, il tempo in cui la cosa figa era avere qualcosa da dire, anche se questo poteva costarti la libertà, e da questo punto di vista come tutti sappiamo è un film a lieto fine, perchè il bigottismo fu battuto e Howl è diventata una delle opere più famose della poesia Americana.

Franco è strepitoso, anche se inizialmente ammetto di aver avuto dei dubbi perchè dal trailer mi sembrava tutto troppo enfatizzato. E invece no, lo staresti ad ascoltare per ore ed è proprio lui a renderti invidioso di chi ha avuto la possibilità di stare seduto, una sera, a sentire Ginsberg leggere, recitare, urlare Howl, l’urlo di dolore e ringraziamento a chi ha contribuito a rendere la società e la cultura americane quello che sono oggi.

Ed è così che vi consiglio di leggerlo, ad alta voce, quasi urlando.

I saw the best minds of my generation destroyed by madness, starving hysterical naked,
dragging themselves through the negro streets at dawn looking for an angry fix,
angelheaded hipsters burning for the ancient heavenly connection to the starry dynamo in the machinery of night,
who poverty and tatters and hollow-eyed and high sat up smoking in the supernatural darkness of cold-water flats floating across the tops of cities contemplating jazz,
who bared their brains to Heaven under the El and saw Mohammedan angels staggering on tenement roofs illuminated,
who passed through universities with radiant eyes hallucinating Arkansas and Blake-light tragedy among the scholars of war,
who were expelled from the academies for crazy & publishing obscene odes on the windows of the skull,
who cowered in unshaven rooms in underwear, burning their money in wastebaskets and listening to the Terror through the wall,
who got busted in their pubic beards returning through Laredo with a belt of marijuana for New York,
who ate fire in paint hotels or drank turpentine in Paradise Alley, death, or purgatoried their torsos night after night
with dreams, with drugs, with waking nightmares, alcohol and cock and endless balls,
incomparable blind streets of shuddering cloud and lightning in the mind leaping towards poles of Canada & Paterson, illuminating all the motionless world of Time between,
Peyote solidities of halls, backyard green tree cemetery dawns, wine drunkenness over the rooftops, storefront boroughs of teahead joyride neon blinking traffic light, sun and moon and tree vibrations in the roaring winter dusks of Brooklyn, ashcan rantings and kind king light of mind,
who chained themselves to subways for the endless ride from Battery to holy Bronx on benzedrine until the noise of wheels and children brought them down shuddering mouth-wracked and battered bleak of brain all drained of brilliance in the drear light of Zoo,
who sank all night in submarine light of Bickford’s floated out and sat through the stale beer afternoon in desolate Fugazzi’s, listening to the crack of doom on the hydrogen jukebox,
who talked continuously seventy hours from park to pad to bar to Bellevue to museum to the Brooklyn Bridge, a lost batallion of platonic conversationalists jumping down the stoops off fire escapes off windowsills off Empire State out of the moon
yacketayakking screaming vomiting whispering facts and memories and anecdotes and eyeball kicks and shocks of hospitals and jails and wars,
whole intellects disgorged in total recall for seven days and nights with brilliant eyes […]

Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte da pazzia, morir di fame isteriche nude
strascicarsi per strade negre all’alba in cerca di una pera di furia hipsters testadangelo bramare l’antico spaccia paradisiaco che connette alla dinamo stellare nel meccanismo della notte,
che povertà e stracci e occhiaie fonde e strafatti stavan lì a fumare nel sovrannaturale
buio di case con acqua fredda librati su tetti di città contemplando jazz,
che il cervello spogliavano al Cielo sotto l’Elevata vedendo angeli maomettani barcollare su tetti di condomini illuminati,
che in università eran di passaggio con occhi raggianti e cool allucinando Arkansas e Blake-lumilievi tragedie tra studiosi della guerra,
che erano espulsi da accademie per pazzo e osceno pubblicare odi sulle finestre del cranio,
che in camere non sbarbate impauriti s’acquattavano in mutande, bruciando i soldi nella carta straccia e ascoltando il Terrore di là dalla parete
che si facevan beccare con barba pubica tornando via Laredo con cintura di marijuana per New York,
che mangiavan fuoco in hotel ridipinti o bevevan trementina in Paradise Alley, morte, o si purgatoriavano il torace notte dopo notte con sogni, con droghe, con incubi a occhi aperti, alcol e cazzo e balle-sballi senza fine, incomparabili strade cieche di nube rabbrividente e fulmine nella mente saltando verso Canada e Paterson i poli, illuminanti tutto l’immoto mondo dell’Intra-tempo,
solidità peyotiche di sale, retrocortiletti verdi alberi albe da cimitero, sbronza di vino su tetti, quartieri di vetrine in corsa da cannarolo su macchina rubata neon intermittente semaforo, sole e luna e
vibrar d’alberi nel frastuono invernale dei crepuscoli a Brooklyn, comizi in cima a pattumiere e sottile sovrana luce della mente,
che si incatenavano alla metro in corsa senza fine da Battery a santo Bronx fatti di benzedrina finchè
il rumor di ruote e bambini li buttava giù tremolanti bocca autotorturata e il tetro del cervello spremuto d’ogni brillanza nella luce cupa dello Zoo,
che sprofondavan tutta notte in luce sottomarina da Bickford, tornando a galla per pomeriggi
birra stantia nel desolato bar Fugazzi, ascoltando lo scoppio del giudizio finale al hydrogen-jukebox,
che parlavan di continuo settanta ore da parco a casetta a bar a manicomio Bellevue a museo a Brooklyn Bridge,
un battaglione perso di conversatori platonici che si buttan giù da scalini giù da scale antincendio da davanzali dall’Empire State
piombando sulla luna, ciacolando strillando vomitando sussurrando fatti e memorie e aneddoti e sballi ottici e shock d’ospedali e galere e guerre, interi intelletti rigurgitati con assoluta precision di memoria per sette giorni e sette notti con occhi lucidi […]

The weight we carry is love

“The weight of the world

is love.

Under the burden

of solitude

under the burden

of dissatisfaction

the weight

the weight we carry

is love.”

Song


Trattasi di vero e proprio furto (grazie Jimmuzzu) ma fisso questa foto da un paio di giorni, ovvero da quando è morto Peter Orlovsky, partner per 40 anni di Ginsberg. E’ una foto meravigliosa (Avedon, mica pizza e fichi), ipnotizzante, tenera. E provo un pò d’invidia, anche solo a pensare ai loro dialoghi.

Books to Remember // Jack Kerouac, Sulla Strada

L’idea per questo post mi è venuta per due motivi. Il primo è che mi sono resa conto che l’età avanza precocemente e la memoria in alcune cose mi ha abbandonata, quindi prima che io mi dimentichi tutto, ho pensato di porre rimedio creando questo post similsettimanale.

Il secondo motivo che non è un motivo ma un’ispirazione, viene da questo post di Isa: http://alleggerisco.wordpress.com/2009/12/09/incipit/

Dunque ho deciso di prendere i libri che ho letto, tutti quelli che riesco a ricordare e quelli che ovviamente mi sono piaciuti e di postarne qualche pezzetto.

Scrivere la trama è una cosa che mi infastidisce, come per i film, e non ho la competenza necessaria a recensirli, quindi prendete questi post per quello che sono.. ovvero consigli e un modo per ricordare.

Il primo che ho scelto è “Sulla Strada” di Kerouac, perchè è quello che sto rileggendo in questi giorni. Tanti sono i motivi che mi hanno spinto ad amarlo, quelle parole “libertà” “cambiamento” “viaggio” che quando si è adolescenti sono come bandiere ma che crescendo perdono un pò del vento che le fa vibrare con vigore. Rileggendolo mi rendo conto che è innanzitutto un bel libro, scritto da dio, e nonostante il tempo passato sembra comunque un libro di fantascienza.

Una cosa che all’epoca non avevo notato o che più semplicemente non aveva colpito la mia attenzione sono i riferimenti musicali, jazz in particolare, materia nella quale ammetto una mia profonda ignoranza a cui cercherò di porre rimedio al più presto, quindi ho inserito un paio di citazioni “musicali”, magari vi verrà la mia stessa curiosità.

“A quel tempo danzavano per le strade come pazzi, e io li seguivo a fatica come ho fatto tutta la vita con le persone che mi interessano, perchè le uniche persone che esistono per me sono i pazzi, i pazzi di voglia di vivere, di parole, di salvezza, i pazzi del tutto e subito, quelli che non sbadigliano mai e non dicono mai banalità ma bruciano, bruciano, bruciano come favolosi fuochi d’artificio gialli che esplodono simili a ragni sopra le stelle e nel mezzo si vede scoppiare la luce azzurra e tutti fanno “Oooooooh!”. Parte 1, Capitolo 1

“Sapevo che a un certo punto di quel viaggio ci sarebbero state ragazze, visioni, tutto; sapevo che a un certo punto di quel viaggio avrei ricevuto la perla”. Parte 1, Capitolo 1

“A quei tempi, nel 1947, il bop impazzava in tutta l’America. I ragazzi del Loop suonavano, ma con stanchezza, perchè il bop era a metà strada fra il periodo del Charlie Parker di Ornithology e quello di Miles Davis. E mentre me ne stavo là seduto ad ascoltare quella musica della notte che è ormai il bop per tutti noi, pensavo ai miei amici sparsi per il paese e a come fossero in realtà tutti nello stesso grande cortile ad agitarsi frenetici e convulsi”. Parte 1, Capitolo 3

“Mi svegliai che il sole stava diventando rosso; e quello fu l’unico preciso istante della mia vita, il più assurdo, in cui dimenticai chi ero – lontano da casa, stanco e stordito per il viaggio, in una povera stanza d’albergo che non avevo mai visto, col sibilo del vapore fuori, lo scricchiolio del legno vecchio dell’hotel, i passi al piano di sopra e altri rumori tristi – e guardai il soffitto alto e screpolato e davvero non riuscii a ricordare chi ero per almeno quindici assurdi secondi. Non avevo paura; ero semplicemente qualcun’altro, uno sconosciuto, e tutta la mia vita era una vita stregata, la vita di un fantasma. Ero a metà strada tra una costa e l’altra dell’America, al confine tra l’Est della mia giovinezza e il West del mio futuro, e forse è per questo che accadde proprio lì e in quel momento, in quello strano pomeriggio rosso.” Parte 1, Capitolo 3

“Erano come l’uomo che usciva da sotto il macigno con la sua angoscia, anche loro venivano dai sotterranei, i sordidi hipster d’America, una nuova generazione beat della quale stavo lentamente entrando a far parte anch’io”. Parte 1, Capitolo 9

“Io ero raggomitolato nel vento freddo e nella pioggia e guardavo tutto dai tristi vigneti di ottobre nella valle. Pensavo solo a quella magnifica canzone, Lover Man, cantata da Billie Holiday; tenni un mio concerto personale tra i cespugli. “Someday we’ll meet, and you’ll dry all my tears, and whisper sweet, little things in my ear, hugging and a kissing, oh what we’ve been missing, Lover Man, oh where can you be…”. Parte 1, Capitolo 13

“E per un instante raggiunsi l’estasi che avevo sempre desiderato conoscere: consisteva nell’entrare di netto nelle ombre eterne superando il tempo cronologico e nell’osservare stupefatto da lontano lo squallore del regno mortale, nella sensazione della morte che mi incalzava spingendomi ad andare avanti, con un fantasma alle spalle che la incalzava a sua volta, e correvo verso un trampolino dal quale si tuffavano gli angeli per volare nello spazio sacro del vuoto della non creazione, nel potente e inconcepibile fulgore che si sprigionava dalla luminosa Essenza della Mente, con gli innumerevoli regni dell’oblio che si aprivano nel magico firmamento del paradiso. Sentivo un rombo indescrivibile, un fragore che non era nelle mie orecchie ma dappertutto, e non aveva niente a che fare con il suono. Mi resi conto di essere morto e rinato innumerevoli volte, senza ricordare, perchè la transizione dalla vita alla more alla vita è così facile ed eterea, una magica azione per nulla, come addormentarsi e svegliarsi un milione di volte, la totale casualità e la profonda ignoranza di tutto ciò.” Parte 2, Capitolo 10

“Poi un silenzio assoluto cadde nella stanza; una volta Dean si sarebbe dato da fare per difendersi, invece ora se ne stava zitto, ma senza chinare la testa, stracciato, distrutto e demente, proprio sotto le lampadine, la faccia ossuta e stravolta coperta di sudore, le vene pulsanti. Poi emise un: “Sì, Sì, Sì” come se ormai non facesse che introiettare incredibili rivelazioni, e sono convinto che fosse proprio così, e anche gli altri lo sospettavano e avevano paura. Era FINITO – e la fine è l’inizio della Beatitudine. Che cosa stava imparando? Faceva l’impossibile per dirmi cosa stava imparando, ed era questo che gli altri mi invidiavano, invidiavano il mio posto al suo fianco, invidiavano il fatto che lo difendessi e me lo bevessi come un tempo avevano cercato di fare anche loro. Poi mi guardarono. Cosa stavo facendo io, uno straniero, in quella dolce notte della costa occidentale?”. Parte 3, Capitolo 3

[Di questo, a dire il vero, mi sento di dover includere la versione originale perchè trovo renda molto di più. Penso sia arrivato il momento, dopo i film doppiati, di abbandonare anche i libri tradotti.]

“Then a complete silence fell over everybody; where once Dean would have talked his way out, he now fell silent himself, but standing in front of everybody, ragged and broken and idiotic, right under the lightbulbs, his bony mad face covered with sweat and throbbing veins, saying, “Yes, yes, yes,” as though tremendous revelations were pouring into him all the time now, and I am convinced they were, and the others suspected as much and were frightened. He was BEAT — the root, the soul of Beatific. What was he knowing?”

“Le nostre valigie logore erano di nuovo ammucchiate sul marciapiede; dovevamo ancora andare lontano. Ma che importava, la strada è la vita”. Parte 3, Capitolo 5

“Una volta c’era Louis Armstrong che suonava come un dio in mezzo ai pantani di New Orleans; prima di lui i folli musicisti che sfilavano nei giorni di festa e trasformarono le marce di Sousa in ragtime. Poi ci fu lo swing e Roy Eldridge, vigoroso e virile, che tirava fuori dalla tromba tutto quello che poteva dare in ondate di potenza e logica e sottigliezza, abbandonandosi allo strumento con gli occhi scintillanti e il sorriso radioso, e sventolandolo in tutte le direzioni a scuotere il mondo del jazz. Poi era arrivato Charlie Parker, un ragazzo nella baracca di legno di sua madre a Kansas City, che suonava il suo saxalto con la sordina fra i mucchi di legname, esercitandosi nei giorni di pioggia, che andava ad ascoltare lo swing del vecchio Basie e il complesso di Benny Moten con Hot Lips Page e gli altri; Charlie Parker che andò via di casa e venne ad Harlem, dove incontrò il folle Thelonius Monk e l’ancora più folle Gillespie, Charlie Parker all’inizio della carriera quando era flippato e girava in cerchio mentre suonava. Un pò più giovane di Lester Young, anche lui di KC, quel malinconico angelico incosciente che racchiudeva in sè tutta la storia del jazz: perchè quando alzava il suo strumento e lo teneva perpendicolare alla bocca e gli dava fiato, era il più grande; e man mano che i suoi capelli si facevano più lunghi e lui più pigro e rilassato, il sassofono si abbassava; finchè non si abbassò del tutto, e oggi che Young porta scarpe con la suola alta per non sentire i marciapiedi della vita, lo strumento riposa languido contro il suo petto e suona di getto frasi fredde e facili. Eccoli, i figli della notte del bop americano.” Parte 3, Capitolo 10

“All’improvviso ebbi una visione di Dean, un terribile Angelo bruciante e tremante, che arrivava palpitando verso di me lungo la strada, che si avvicinava come una nuvola a velocità incredibile, che mi inseguiva come il Viaggiatore Velato nella pianura, che mi piombava addosso. Vidi la sua faccia sopra le pianure, enorme, fissa nella sua espressione di testarda decisione, con gli occhi scintillanti; vidi le sue ali; vidi il suo carro malandato da cui si sprigionavano migliaia di fiamme e scintille; vidi il sentiero bruciato che tracciava sopra la strada; se l’apriva addirittura da sè, la strada, sopra i campi di granturco, attraverso le città, distruggendo ponti, prosciugando fiumi. Arrivava nel West come un castigo . Capii che Dean era impazzito di nuovo”. Parte 4, Capitolo 2

“Dietro di noi si stendeva tutta l’America e tutto quello che io e Dean sapevamo della vita, e della vita sulla strada. Avevamo finalmente trovato la terra magica in fondo alla strada e non ce l’eravamo nemmeno immaginata, la portata di quella magia”. Parte 4, Capitolo 5