Shelter from The Storm

Quando una persona ti accompagna per quasi tutta la vita, spesso illuminandola come se all’improvviso il velo che avevi davanti agli occhi fosse scomparso; proprio quando non hai certezze nemmeno su quale sia il tuo nome figurarsi sul tuo futuro, beh ad un certo punto ci si inizia a prendere una certa confidenza.

Forse troppa.

Si creano aspettative, si tende anche involontariamente a giudicarne le scelte.

La mia fede non è mai venuta meno, sia chiaro, ma alcune scelte estetiche, stilistiche e artistiche mi hanno lasciata perplessa, quasi frustrata perché non riuscivo più a riconoscerla e incredibilmente, stupidamente, ero terrorizzata dall’idea di questo tour. Ripeto la parola stupidamente perché la nostra storia insieme avrebbe dovuto rassicurarmi, la fiducia se l’è ampiamente guadagnata. Ma si sa, a volte vorremmo che le persone che amiamo crescessero secondo le nostre preferenze, come vorremmo noi, magari come faremmo noi.

Temevo tutto: look, featuring, setlist. Una completa imbecille.

Sapete io e lei abbiamo una storia lunghissima, lunga almeno quanto le amicizie più forti, che parte dal 1998. Di quella prima volta ho scritto spesso, è talmente importante ed è la volta di cui percepisco ancora le emozioni secondo per secondo. Non era un tour, erano pochi minuti concentrati. Era follia, erano urla lacrime gioia. Il primo vero tour fu invece nel 2001, il Drowned World Tour. Tour che per me ha cambiato tutto perché da li in poi il confronto con qualsiasi altro spettacolo è stato semplicemente impossibile.

Ci sono stati tanti tour da allora e alcuni di questi mi hanno regalato le più belle esperienze e avventure della mia vita, incontri che mi hanno cambiato l’esistenza, posti che non avrei mai visitato, perché ogni tour era ed è una scusa per rivedersi, per viaggiare e creare ricordi.

Going straight to the point, avendo visto tutti i tour dal 2001 in avanti non posso dire che questo: il Celebration Tour di cui tanto avevo paura, è il migliore di tutti.

Come ha detto il mio amico Nicola non è perfetto come il Confessions (né lei è perfetta come nel Confessions), ma forse per questo motivo è migliore.

Potremmo parlare del livello tecnico dello show, che resta inarrivabile per quasi tutti. Potremmo parlare dell’utilizzo degli schermi, delle luci, dello stesso palco. Sono fattori che senz’altro influiscono ma non sono loro a renderlo il suo spettacolo più bello di sempre: credo che a farlo sia la continuità.

È un musical, è il biopic su cui da tanto sta lavorando. Ci vuole prendere per mano per raccontarci la Sua storia e per farlo affida il ruolo di Virgilio a Bob che inizia ricordandoci per cosa dobbiamo ringraziarla, che cosa ci ha insegnato (e no, non è lì solo a scaldare l’atmosfera, la sua presenza in questo concerto è fondamentale anche se temo che a molti sia sfuggito).

Ho letto diversi commenti che giudicano l’opening di questo tour “anticlimactic” e sono in assoluto disaccordo. Nothing Really Matters è l’opening che nessuno si sarebbe mai aspettato e mette subito le cose in chiaro: TUTTO QUELLO CHE VI DO MI TORNA INDIETRO. NON SARÒ MAI LA STESSA SENZA DI VOI. Lo ripete 3 volte, che sia ben chiaro, questo show racconta la sua, la nostra storia. Strappa il cuore e mi basta questo, non c’è bisogno di fuochi d’artificio per definire un opening ben riuscito.

La parte anni 80 è semplicemente strepitosa e regala una Open Your Heart di cui non sapevo di aver così dannatamente bisogno, oltre che a regalare il momento più bello e meritato a Daniele Sibilli.

Difficilmente si vedrà ancora in un concerto pop qualcosa di livello così alto come la transizione da Holiday a Live to Tell: la fine del party, la musica che rallenta e la gigantesca ombra di quel mostro in quel momento sconosciuto, l’AIDS, che si fa pesante, schiacciante. Vediamo la morte, e lei che timidamente vi assiste non potendo far niente se non offrire il suo conforto come ha raccontato lei stessa nel discorso del 1 dicembre.

La morte. Un aspetto che non aveva mai trattato nei suoi tour come se fosse parte del racconto e che qui è ben presente. Live to tell inizia e sugli schermi appaiono i volti delle persone che abbiamo perso a causa dell’AIDS. Famosi, certo, ma anche persone comuni le cui storie sono raccontate quotidianamente dalla pagina Instagram The AIDS Memorial. L’esibizione è potente, devastante, sicuramente uno dei picchi della sua carriera. La morte torna in modo ancora più vivido quando ci ricorda di come pochi mesi fa avremmo potuto perderla. Canta I will Survive con la chitarra, lentamente, perché quel che conta è il messaggio: sono sopravvissuta e ho ancora tanto da dare, tanto amore da dare.

L’amore è un altro tema presente in tutto lo show: nei nostri confronti, da Nothing Really Matters in cui è più plateale fino alla scelta di alcuni pezzi sicuramente “secondari” per un ascoltatore casuale ma non per un fan (devo ancora darmi dei pizzicotti per realizzare che il trittico Erotica-Rain-Bad Girl non è stato solo un sogno). L’amore per i figli, presenti ovunque sia sul palco che fuori, presenti nei discorsi, nelle performance, negli sguardi. Alcuni scambi di sguardi tra lei e David e Mercy sono tra le cose che più mi sono rimaste impresse dal vivo purché ne ho percepito orgoglio e affetto spropositati da entrambe le parti. L’amore per sua madre, l’amore per la vita, l’amore per se stessi e per il proprio vissuto (con la se stessa più giovane presente accanto a lei in più segmenti).

Ma non è tutto sorrisi e cuori questo show, come potrebbe esserlo dovendo raccontare la sua carriera. C’è chi cerca di fermarla, chi cerca di usarla come esempio di tutto ciò che è male e lei risponde: I’m not your bitch don’t hang your shit on me. Che è un po’ il riassunto di tutta la sua carriera e una frase che va bene oggi come nel 1990, nel 1992, nel 1995 o negli anni 2000. Lei è sempre stata troppo: troppo audace, troppo spregiudicata forse, troppo esplicita, sicuramente troppo coraggiosa per una società puritana, terrorizzata dal sesso, dal corpo femminile e dal potere della conoscenza.

Non ha mai avuto paura e questo è uno degli insegnamenti fondamentali che ci ha sempre trasmesso: non importa quali siano le conseguenze non abbiate paura di essere ciò che siete. E lei paura non ne ha per niente, non ha paura del suo corpo che è cambiato ma lo mostra forse di più di quanto non abbia fatto negli ultimi 3 tour. Non ha paura di fare entrare le persone dall’altra parte dello specchio che è il suo Instagram. La vediamo senza filtro alcuno, bella, bellissima, sensuale come non mai.

Questo è forse l’insegnamento più grande che porto via da questi concerti: amare se stessi. Amarsi di più, apprezzare la vita, perché siamo fortunati ad essere ancora qui e per alcuni di noi è un vero miracolo.

Scoppia, scoppia mi scoppia il cuor

Non si dovrebbe scrivere di getto dopo un evento che devasta emozionalmente.
Si potrebbe facilmente cadere nella banalità, dicono, nell’esagerazione.In questo caso non me la sento di aspettare, ho bisogno di buttare fuori il dolore che provo.

Raffaella per me, per molti, è stata più di una cantante, di una “showgirl”, più di una donna di spettacolo in senso stretto. Lei era un faro. Un faro che guidava nel buio di una vita incerta, indecisa, chiusa dentro una bolla di paura.
Quando si andava a ballare si entrava in un altro mondo e si era finalmente liberi, grazie a lei. La gioia che ho provato tutte quelle sere difficilmente la proverò ancora, ma non vedo l’ora di tornare a ballare per renderle grazie di quello che ha fatto per noi. Per me.

Di persona l’ho fatto, quando l’ho incontrata l’ho ringraziata piena di emozione per tutto quello che aveva fatto per me. Lei era un po’ stranita nel sentirsi dire certe cose, non so se si sia mai resa conto della sua importanza nel nostro mondo anche se spero di sì. Ci ha regalato canzoni immortali ma soprattutto la vita, un senso di gioia perenne, la libertà di essere noi stessi, qualunque cosa questo significasse. Per questo stiamo soffrendo come se avessimo perso una madre, perchè lei lo era, nostra Madre.

Era una guida, non solo per noi ma per lo spettacolo tutto, quella che è arrivata prima in ogni cosa, che si è inventata un mestiere, uno stile, che gli artisti di oggi continuano ad omaggiare ispirandosi a lei. Ancora oggi, nel 2021.

La sua morte è qualcosa di irreale perchè ci si aspetta sempre che personaggi che hanno segnato la nostra vita siano figure mitologiche, provenienti da un altro mondo. Invece no, realizzi che sono umane e ti crolla il mondo addosso. E non so se ce la faccio a spostarmi un po’ più in là.

I Detest Cheap Sentiment // Elegia Americana

Comincio con il dire che A Hillbilly Elegy non è un film brutto. Non è un film bello. E’ pressochè inutile.
Per quanto nemmeno il libro da cui è tratto sia un gran capolavoro, quello aveva almeno il pregio di essere onesto, brutalmente onesto. E da parte di una persona che nella vita ha avuto successo ed è una figura pubblica l’esporre l’ambiente da cui provieni senza filtri non è affatto scontato.
Infatti mi sorprende che lui sia parte dei produttori e che abbia lasciato che così tanto della sua vita venisse plasmato da Ron Howard.

Elegia Americana è una versione edulcorata dei fatti che lui stesso racconta. E’ un montaggio di episodi utili a regalare “momenti da oscar” alle due bravissime protagoniste. Nient’altro. Non scava minimamente nei personaggi, se non per un mini flashback anche quello ad episodi tra JD e sua sorella Lindsay. Solo lì scopriamo che la vita di Bev, la madre di JD e Lindsay interpretata da Amy Adams e di Mamaw, sua madre interpretata da Glenn Close è stata ancora peggio delle loro vite.

Il problema sta anche qui. Giustificare un comportamento autodistruttivo, la malattia mentale e tutta una serie di comportamenti con due flashback di 10 secondi l’uno per me è facilone, banale e fa quasi torto alle persone vere che ci sono dietro questa storia.

Come era prevedibile la parte di Amy Adams è stata ingigantita rispetto al libro e molti degli episodi fatti intepretare a lei sono nella realtà di Mamaw, la persona che in definitiva ha salvato JD. Da se stesso, da sua madre e dall’ambiente in cui è cresciuto.

Ambiente che ha reso il libro il caso editoriale che è stato nel 2016 e che occupa una parte fondamentale della storia. Qui non vediamo vicini, se non quelli raccolti in strada durante il meltdown di Bev e il paio che viene utilizzato come esempio delle furibonde liti che erano la quotidianità del quartiere qui ridotti a due parolacce davanti al portico di casa. Non vediamo il perchè si chiami Hillbilly Elegy. Non vediamo le droghe che hanno decimato una generazione e hanno creato una delle più gravi crisi da quella del crack.

Siamo d’accordo che il film è una cosa e il libro è un’altra, ma qui si tratta di una storia vera e non si tratta di omissioni di poco conto.
Quello che ne viene fuori è un drammone a tratti noioso, un collage di episodi che non lasciano nulla se non del facile sentimentalismo e delle grandi interpretazioni delle due protagoniste. Non c’è nessun approfondimento, la superficie rimane intatatta.

Detto questo gli do tutte le attenuanti del mondo. Si tratta di Ron Howard, è un film che va su Netflix e non potevano certo produrre un Precious. Le nominations per loro sono fondamentali e Glenn Close e Amy Adams gliene garantiscono due ad occhi chiusi. Ma c’è una via di mezzo tra il film “troppo realistico allontana spettatori” e questa melensaggine insapore.

Spiace, mi aspettavo molto.

Nomadland // Elegia Americana

“At one time there was a social contract that if you played by the rules (went to school, got a job, and worked hard) everything would be fine. That’s no longer true today. You can do everything right, just the way society wants you to do it, and still end up broke, alone, and homeless.”

Avrei voluto scrivere subito dopo aver letto Nomadland tanto era l’entusiasmo suscitato in me da quel libro, da quel mondo “nuovo”, appena scoperto. Ma poi ho iniziato Elegia Americana e deciso di aspettare, sentivo che queste due esperienze sarebbero state in qualche modo connesse, che mi avrebbero alla fine regalato una riflessione più profonda su una nazione che tanto amo sotto certi aspetti quanto odio per molti altri. E avevo ragione.

Nomadland è stato un viaggio pazzesco e nella prima parte e per tutta la prima metà la mia intenzione era quella di aggregarmi seduta stante a quella ormai non tanto nuova famiglia su ruote. L’idea della libertà, di non dover rendere conto a nessuno ma soprattutto di spostarmi ogniqualvolta ne sentissi la necessità suonava anche troppo bella per essere vera.

Nomadland parla di un movimento in forte crescita a seguito della crisi del 2008 che ha colpito il ceto medio (ma non solo, come si legge nelle varie testimonianze raccontate nel libro) e il settore immobiliare più in generale. Chi contava su proprietà immobiliari o sulla propria abitazione come fonte di sicurezza per il futuro è rimasto con in mano praticamente nulla. Chi invece aveva optato per gli investimenti come forme di “pensionamento” privato si è trovato nella stessa situazione. Senza risparmi.

I nomadi che Jessica Bruder ha rincorso e conosciuto per ben tre anni sono per gran parte di età superiore ai 55 anni, spesso senza vera alternativa tra il pagare l’affitto e comprarsi da mangiare. Davanti a questa scelta le soluzioni non sono molte e smettere di pagare affitti e mutui andando ad abitare in case mobili e viaggiare per gli Stati Uniti in lungo e in largo in cerca di lavori temporanei – e non sempre adatti ai loro fisici non più giovanissimi – è sembrata a molti l’unica praticabile.

Conosciamo diversi personaggi insieme all’autrice, soprattutto Linda a cui è impossibile non affezionarsi. Il suo sogno? Creare la sua earthship in mezzo al deserto (dopo anni di risparmi riesce a comprare finalmente un appezzamento di terreno proprio al termine del racconto, sarei curiosa di sapere se ce l’ha fatta).
Per spiegarvi cosa sono le earthship prenderò in prestito le parole di wikipedia: “Le earthship sono una tipologia di case solari passive, con sistemi di riscaldamento e raffrescamento a energia zero, indipendenti dal punto di vista dell’approvvigionamento idrico ed energetico”. Nel caso di Linda il suo sogno è di costruire questa casa da zero, partendo da materiali riciclati e magari con l’aiuto di qualche altro nomade.

Già perché la cosa che più mi ha colpito di questo libro ed il motivo per cui mi darei a questa vita anche domani è il senso di comunità che ho trovato nelle sue pagine. I nomadi, che non amano definirsi senzatetto anche se formalmente, per la legge, lo sono, si trovano diverse volte l’anno, hanno appuntamenti fissi e blog in cui condividono le proprie esperienze dal punto di vista umano ma anche pratico. Da nomade qualsiasi cosa succeda al tuo mezzo / abitazione è qualcosa che devi sistemare il più in fretta possibile soprattutto se si tratta, ad esempio, del riscaldamento d’inverno. Mi è piaciuta molto questa disponibilità ad aiutarsi, la voglia di condividere ma allo stesso tempo il rispetto dell’altrui necessità di solitudine. 

L’autrice segue i nomadi – chiamati anche Workampers proprio per l’unione delle parole lavoratori e camper – anche in diversi lavori stagionali, iniziando da Linda che si appresta a cominciare il suo lavoro come responsabile di uno dei campeggi situati nei parchi nazionali della California, partecipa al periodo – breve ma devastante – della raccolta della barbabietola da zucchero e soprattutto al programma Camperforce, istituito per il periodo natalizio da Amazon per gestire il picco di ordini nei loro magazzini. Pur avendone sentite di ogni circa la il trattamento del personale Amazon mai avrei immaginato corridoi con distributori gratuiti di antidolorifici generici, l’impiego di persone oltre i settant’anni per turni massacranti di 12 ore che spesso lasciano strascichi anche per mesi. E’ una pratica molto comune quella descritta nel libro ma benché io sia certa che offra del sollievo garantendo uno stipendio a queste persone per due o tre mesi non posso che trovarla deplorevole.

Potreste rispondermi “è il consumismo, bellezza” e in effetti avreste ragione. Questo però non me la rende più digeribile.

Ed è qui che la mia opinione su quello che stavo leggendo è cambiata. E’ un libro stupendo, scritto davvero bene, ma non si può non provare alla fine un pò di tristezza nel realizzare che in quello che viene definito il paese più ricco del mondo sempre più persone magari dopo aver lavorato una vita si trovano a dover fare lavori massacranti e mal pagati vivendo in case su ruote che non possono parcheggiare più di due settimane nello stesso posto – dove è concesso, in città invece vivono con il terrore del “bussare al finestrino” da parte della polizia, che significa sgombero.

La visione romantica che avevo fino a metà libro della loro libertà, comunione e tutto sommato del loro ottimismo davanti alle avversità è di colpo svanita quando ho realizzato che in realtà non sono liberi. La dipendenza dalle convenzioni sociali che impongono ad esempio di avere un indirizzo fisso per esistere, l’inasprimento delle leggi che vogliono limitare questa pratica, la solitudine che diventa quasi pericolosa quando si arriva ad una certa età, sono cose che mi hanno rattristata profondamente. 

Ed è qui che arriva la connessione con “Elegia Americana” di JD Vance. 

JD è un ex ragazzino del Kentucky trapiantato come molti della sua generazione nella “rust belt” (gli stati americani che più hanno sofferto a seguito del declino delle acciaierie e delle miniere di carbone), nello specifico in una cittadina dell’Ohio.

La sua è una storia di povertà estrema, di un’America che non fa parte di nessun sogno e che non ha nessun sogno.
Una storia fatta di violenze, droga, alcool e infanzie finite molto presto. E’ la storia degli hillbilly, immigrati scozzesi e irlandesi delle zone rurali degli Appalachi, gente con la pelle dura e la testa ancora più dura. Famiglie allargate in cui ogni membro è fondamentale nonostante gli errori commessi – in questo libro vengono perdonati tutti, nonostante abbiano perpetrato le peggiori nefandezze, tranne una ragazza incinta di un ragazzo afroamericano.

Lo scrittore ora corrispondente CNN, avvocato, laureato a Yale è l’eccezione alla regola e questo è quello che cerca di spiegare in questo libro. C’è una fetta di popolazione che ha decisamente meno possibilità di riuscire a farsi strada nel mondo del lavoro, avere una carriera, persone a cui è preclusa la scalata sociale che è tanto l’emblema degli Stati Uniti d’America. Il chiunque può farcela, basta volerlo, qui non vale. L’infanzia finisce prima di cominciare e se non si hanno in famiglia persone forti che ti spingano ad eccellere sei destinato a fallire. Non ti prenderanno mai nel college giusto, non saprai nemmeno mangiare nel modo giusto e saprai ancor meno come vestirti per un colloquio.

Quello che Vance descrive è anche un popolo di cui poco si vuole parlare (se ci pensate, quante volte avete sentito parlare di afroamericani che approfittano del welfare? Quante volte invece di bianchi?) perché è meglio che rimanga nascosto dal momento che rovina l’immagine patinata della terra degli uomini liberi e coraggiosi. La sua è una storia straziante e se si pensa che di fatto è un’eccezione e che per decenni si è portato addosso quei traumi nella vita di tutti i giorni nonostante il successo avuto il pensiero delle altre decine o centinaia di migliaia che non ce l’hanno fatta lascia tramortiti.

L’Europa, sotto diversi punti di vista, offre molte più possibilità di crescita anche a cittadini con basso reddito. Uscire dalla propria classe sociale non è così impossibile anche se raggiungere gli stessi obbiettivi richiede maggiori sforzi per chi non ha una famiglia benestante a sostenerlo.

Quello che ho gradito meno del libro tuttavia è la palese omissione del razzismo imperante in quella fascia di popolazione. 

Ho scoperto successivamente alla lettura che è stato utilizzato per giustificare l’ascesa di Trump essendo uscito nel periodo della sua elezione. E’ possibile. Il populismo fa presa sull’ignoranza, determinati argomenti fomentano la rabbia di chi ha meno. 

Come accenna l’autore, la sola presenza di Obama e della sua bellissima famiglia ricca e affermata era un affronto per i bianchi poveri che hanno di conseguenza optato, dopo di lui, per l’uomo che prometteva di sanzionare le fabbriche che spostavano la produzione all’estero. Che prometteva di far tornare l’America grande.

Tra pochi giorni sapremo se hanno capito che non hanno mai avuto alcuna speranza di diventare grandi, men che meno di tornare ad esserlo.

Lonesome Dove // Larry McMurtry

“Tutta l’America si trova in fondo a una strada selvaggia, e il nostro passato non è morto ma vive ancora in noi. I nostri avi avevano la civiltà dentro; fuori, la natura selvaggia. Noi viviamo nella civiltà che loro hanno creato, ma in cuor nostro quel mondo selvaggio perdura. Viviamo ciò che sognarono e ciò che loro vissero, noi lo sogniamo”. T. K. Whipple, Study Out the Land

Premetto che avrei bisogno di un gruppo di supporto perchè sono passati 20 giorni da quando ho finito il libro e non mi sono ancora ripresa.
Credo mi sia successo forse un paio di volte in tutta la mia vita di provare dei sentimenti così reali nei confronti dei personaggi, della loro storia, una difficoltà così enorme nel “lasciare andare” un romanzo. Sono praticamente sul punto di ricominciare da capo e rileggere tutte e 900+ pagine per stare ancora un pò con Gus, Call, Deets, Newt.

Senza dubbio tra i dieci libri più belli che io abbia mai letto, di sicuro tra quelli che mi hanno emozionata di più.

Un’epopea western che contiene tutto, ma che fa del dialogo piuttosto che dell’azione (nonostante ce ne sia molta) il suo punto di forza, l’introspezione psicologica dei personaggi complementare alle sparatorie e agli inseguimenti, il tutto fuso insieme in un unico immenso capolavoro.

Il libro inizia sul Rio Grande nella cittadina di Lonesome Dove, dove due ex ranger del Texas fomentati dal loro ex compagno d’armi Jake che gli racconta di pascoli infiniti nel Montana, mettono insieme con una fretta quasi irrazionale una squadra per portare una mandria al nord. Un nord che a quell’epoca era impossibile anche solo individuare, un nord lontanissimo e difficile da immaginare per chi non aveva mai visto la neve e sentiva parlare delle montagne come qualcosa di leggendario. Questo viaggio li porterà lontano non solo fisicamente dalla relativa tranquillità del Texas assopito ma anche e soprattutto mentalmente. I personaggi sono tanti e ci si affeziona a tutti per motivi diversi. Ci si affezziona alla alla solitudine e i rimpianti freddi e silenziosi di Call, ai rimpianti affrontati in modo opposto da Gus impegnato quasi sempre a riempire il vuoto con quante più parole ed esperienze possibili. Ai ragazzi, partiti quasi bambini senza avere mai visto niente e posseduto ancora meno. Alle donne, fondamentali per i destini di tutti ma così diverse tra loro.

La scrittura di McMurtry viene influenzata dal paesaggio e si percepisce nel libro una differenza sostanziale tra quanto accade nelle cittadine e quanto succede invece nella parte selvaggia del paese. In città c’è leggerezza, ironia, comicità; sulla strada c’è la violenza, le difficoltà, la morte. Non sempre causata dall’uomo ma anche e soprattutto dalla natura che in un libro sulla frontiera non può che essere involontaria protagonista. Il cambio di tonalità di McMurtry è una delle caratteristiche che rendono il questo romanzo il capolavoro che è, passando dall’intimità alla violenza, dall’amore ad un odio vecchio di decenni.

L’opera di McMurtry ci fa viaggiare attraerso gli albori dell’America in una fase cruciale, facendoci vivere la fine di un’era che rimarrà sempre leggendaria: quella della scoperta, delle terre selvagge e violente, degli indiani, un’America che non c’è più ma che resta impressa nell’immaginario collettivo come qualcosa di mitologico insieme alle mandrie immense di bisonti che l’attraversavano indisturbati facendoci anche intuire l’arrivo della nuova era, quella dei coloni, della corsa alle terre, dell’immigrazione di massa. Un libro semplicemente indimenticabile.

– Non pensi mai che tutto quello che abbiamo fatto è stato un errore? Guardala dal punto di vista della natura. Se ci sono abbastanza serpenti, un posto non viene invaso dai ratti e da altre bestiacce. Secondo me, indiani e banditi hanno la stessa funzione. Se li lasci stare, non sarai costretto ad attraversare questi maledetti insediamenti.

– Non sei costretto ad attraversarli. Che male ti fanno?

– Se era la civiltà che cercavo, restavo nel Tennessee a guadagnarmi da vivere scrivendo poesie. Io e te abbiamo lavorato troppo bene. Abbiamo fatto fuori tutti quelli che rendevano interessante questo paese.

Friday Night Lights // H.G. Bissinger

Friday Night Lights: tre parole che per noi non significano nulla e anche traducendole non diventano molto più sensate. Tre parole che per gli americani hanno un significato enorme, quasi assoluto.

Le luci del venerdì sera sono le luci dei campi di football liceale, che il venerdì sera risplendono e richiamano come falene verso la luce gli abitanti di intere cittadine o almeno tutti quelli abbastanza fortunati da essersi aggiudicati un biglietto.

Non ho mai visto la serie TV ne il film tratto da questo libro ma da tempo non vedevo l’ora di leggerlo perché poche cose spiegano l’America quanto lo sport giovanile.

È un libro fantastico, partiamo da questo presupposto, probabilmente uno dei migliori libri sportivi di sempre ed è ambientato ad Odessa nello stato del Texas nel 1985.

Una di quelle cittadine cresciute velocemente come cattedrali nel deserto (nel vero senso della parola) durante il boom petrolifero e che altrettanto velocemente sono crollate quando il boom è finito. Città che in quel periodo intermedio avevano una sola ragione di vita: la squadra di football del liceo.

Una delle cose che ho trovato più sconvolgenti nella parte in cui viene descritto il background della cittadina e della storia delle sue squadre di football è stata scoprire che praticamente fino agli anni 80 le scuole di quelle zone (e mi viene da pensare a questo punto anche al resto degli USA lontani dalle grandi città) non erano ancora realmente e definitivamente desegregate. E nemmeno le città, tagliate in due con una zona “nera”dietro ad un muro e i centri commerciali dall’altro lato. Mi ha dato parecchio da pensare, anche se non sono così ingenua da non sapere che in fondo da Martin Luther King in America poco è cambiato.

Ma per quanto fosse radicato il razzismo di una cosa ad Odessa si era certi: i neri giocano bene a football. Così una volta avvenuta la fusione delle scuole la Permian (la scuola dei Panthers, protagonisti del libro) con l’aiuto di una mano evidentemente complice tratteggiò un confine piuttosto strano in base alle abitazioni dei possibili giocatori, lasciando all’altra scuola i messicani notoriamente non fortissimi.

Se questo non bastasse a sconcertarvi almeno un po’ lo faranno sicuramente i capitoli dedicati ai giocatori; il modo in cui vengono trattati, idolatrati, coccolati fino a danneggiarli. Già perché una volta finita la scuola non avranno la benché minima istruzione e non avranno i voti necessari a garantirgli l’accesso ai college migliori se non saranno abbastanza fortunati da essere scelti per il football, cosa che non capita a molti di loro. I compiti in classe li fanno con il foglio delle risposte, sempre se scelgano di farli, di compiti a casa non se ne parla neanche. Emblematica e piuttosto triste la vicenda di un professore con grande esperienza che a causa del suo rifiuto a cedere a questo sistema finisce per perdere tutto (il motivo e soprattutto gli eventi che seguiranno la sua decisione non posso rivelarli perché a leggerli per la prima volta non ci si crede).

In tutta questa assurdità, vista dall’altro lato dell’atlantico, c’è un po’ di tristezza per i sogni infranti di chi punta tutto su un sogno quasi impossibile, per chi mette sulle spalle di ragazzini di 17 anni le proprie ansie, la propria frustrazione e voglia di rivalsa. Ma c’è anche un po’ di invidia per quel senso di comunità che da noi spesso manca anche nelle piccole cittadine.

Vi consiglio assolutamente la lettura di questo libro perchè c’è tanto da scoprire su un paese che è un’unica ed immensa contraddizione. Un paese che è fatto di tante cose che amo ma anche di tantissime che invece mi lasciano persplessa. E’ un paese complesso, nato dall’unione di persone che erano lì con lo scopo di migliorare la propria condizione, con davanti una tavola bianca su cui dipingere il proprio destino (che poi tanto bianca non era, ma così l’hanno resa eliminando quasi completamente i nativi). Da lì forse nascono le loro contraddizioni, da questa idea del sogno da realizzare, del divenire qualcosa o qualcuno e in caso contrario sentirsi dei falliti.

Ma da lì, da quella tela bianca deriva anche il senso di libertà che si respira quando si guardano quelle terre immense e bellissime. Sapere di potersi spostare senza portarsi dietro nulla e poter ricominciare. Quando si vuole, dove si vuole. Questo per me rende magica l’America.

E se questo libro un po’ smonta la sua idealizzazione, aiuta anche a capire le persone che quella terra la abitano e la amano.

Altre pere, altra torta

Qualcuno me la può spiegare questa cosa che in quarantena le pere non maturano? C’è un motivo? Becco solo io delle pere di merda?

Non vedo l’ora di poter uscire per tastare di persona tutte le pere presenti nei supermercati a costo di farmi arrestare. Che detta così sembra mi stia preparando per un’ escursione a sfondo sessuale ma vi garantisco che il pensiero non potrebbe essere più lontano dalla mia mente in questo momento.

Non so se ne usciremo ma se ne usciremo non sarà grazie alle pere.

Dalla quarantena // Decreti di mezzanotte e presidenti pericolosi.

In questi giorni tutti uguali una cosa che proprio non manca sono i decreti di mezzanotte di Conte. Questa volta interrompe la prima serata, in cui comincia a serpeggiare su WhatsApp un ansioso quanto generico “tra poco parla Conte”.

Quel poco si è trasformato in qualcosa come tre quarti d’ora di terrore misto ad aspettativa. Minuti eterni, di supposizioni e teorie e ancora prima che parlasse di “Conte dimettiti”, per non farsi mancare niente.

Poi ha parlato ed ora che sono le 2 sto ancora pensando alla portata delle sue parole. A quello che succederà lunedì. Quali fabbriche chiuderanno? Come faranno? Come faremo?

Ma non penso solo a quello. Quello che mi tiene davvero sveglia è il pensiero che più mi è vicino. Penso alle persone che come me hanno una patologia cronica che necessita di terapie periodiche da effettuarsi in ospedale, terapie che non vengono più effettuate, in alcuni casi, da un mese. Questo virus farà molte più vittime di quelle “dirette”, e ci penso perché alcune di questo persone le conosco. Magari non moriranno, o almeno me lo auguro, ma di sicuro si aggraveranno, soffriranno. Lo vedo già, in alcuni casi. Fa molta paura sapere di non trovarsi al loro posto solo perché sei stata miracolata da un’auto iniezione.

Per questo mi fa rabbia vedere che il presidente degli Stati Uniti, in barba a qualsiasi logica mentre noi stiamo lottando, i nostri medici e tutto il personale sanitario sta lottando per salvare vite, posta un tweet in cui praticamente illustra la sua cura miracolosa per il COVID19. Cura che non si è inventato, sono farmaci che vengono testati direttamente sul campo come succede per tutte le malattie per cui non ci sono vaccini o cure precise. E lo so bene, oh se lo so bene.

Lo so talmente bene da prendere due volte al giorno l’antimalarico da lui citato, di cui probabilmente persone anche sane cercheranno di fare razzia, rendendolo magari introvabile per chi ne ha bisogno davvero.

Donald Trump, sei un terrorista.

Diari dalla (cucina in) quarantena

La quarantena prosegue e con essa esperimenti culinari improbabili.
Già perchè con la reclusione ci siamo scoperti un popolo non solo di navigatori, allenatori, virologi, sismologi ed economisti ma anche e soprattutto un popolo di cuochi provetti.

E devo dire che non sarebbe nemmeno male come cosa se solo non fossi a dieta. Ragazzi seguire la dieta in quarantena è impossibile. Primo, l’insalata muore e non è che possiamo andare al supermercato una volta al giorno a prendere insalata, con il rischio di venire additati dai balconi al grido di DOVETE STARE A CASAAAAAAAA!! Secondo, appunto, il secondo? Che famo? Fagioli e ceci a oltranza? E la convivenza poi?
Certo si potrebbe anche surgelare la carne ma a voi piace la carne surgelata? A me no, cazzo. Quindi non resta che una possibilità: mangiare e fare 4 ore di addominali e cyclette dopo il lavoro.

Per questo motivo ad esempio oggi non posso ridere e per fortuna che non c’è un cazzo da ridere perchè ho gli addominali che hanno scoperto di esistere e non sono per niente contenti.

Quindi dicevamo, via agli esperimenti culinari.

In questi giorni su twitter ho visto (e apprezzato) di tutto: pane, torte (mia madre è già alla terza con la scusa che “le pere non maturano” e questo è per farvi capire il suo livello di collaborazione alla riuscita della mia dieta), tortellini, tagliatelle, ragù d’altri tempi (ovvero di quanto avevamo il tempo di farlo cuocere per sei ore), torte torte torte, frittate frittate frittate ma soprattutto, in tutto il suo splendore: La Pizza.

Ora, su poche cose noi italiani sappiamo essere uniti nelle abitudini e nell’orgoglio e una di queste, la fondamentale è proprio la pizza. Sabato sera penso che senza pizza saremo rimasti io e quei poveri cristi che non hanno fatto in tempo a partecipare alla razzia delle farine al supermercato. Mi sono sentita esclusa e per questo motivo mi sto adoperando per il prossimo fine settimana (verrete aggiornati con foto esclusive di tutto il procedimento, chiaramente).

Ecco ora è suonato l’allarme, è pronta un’altra torta alle pere.

Perchè d’altronde quando si è finito di commentare i tg e il bollettino COVID del giorno, di che cosa si può parlare se non di che si mangia a merenda / pranzo / cena? Le pulizie le abbiamo già fatte adesso per i prossimi 10 anni, papà almeno è impegnato con il giardinaggio (i peschi sul terrazzo sono diventati tre e prima o poi crolleremo di sotto) e tra una lettura e l’altra la domanda è inevitabile: CHE MANGIAMO?!

La cosa positiva? I grandi cuochi che su instagram stanno offrendo un sacco di lezioni gratis che è interessantissimo seguire.
Consiglio ad esempio gli account di Massimo Bottura che se dopo la lezione sulla besciamella vi vedo comprarla vi prendo a bacchettate sulle mani, Chef Barbieri che tra risotti e rose di patate provoca bava incontrollabile e Giancarlo Perbellini.

Detto questo tocca andare, mi è appena stato chiesto “Ma non possiamo fare una bella polenta?”. Alzo le mani e mi arrendo.