But You Gave Me Something To Remember

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Io ed E avevamo questa consuetudine, nata un lontano e gelido giorno di gennaio.

Quella sera saremmo dovute andare a vedere il nuovo Allen ma la vista di un centro di Milano completamente innevato bloccò tutti i propositi di fedeltà alleniana. Così invece di chiuderci in sala andammo in giro un po’ camminando un po’ cadendo per Milano, ridendo e lanciandoci addosso palle di neve cosa che credo di non avere mai fatto nemmeno da bambina.
In tutto questo ci avvicinammo a casa mia e tra una caduta fortuita e un rotolarsi addosso del tutto consapevole ci ritrovammo completamente fradice.

La ricordo come una delle più belle serate della nostra storia, anche perché di serate in realtà ce ne sono state poche.

Una volta a casa mia, tolti gli abiti ghiacciati e messi ad asciugare, indossò una maglia (ricordo che era quella di calcio dell’Irlanda del Nord) scelta accuratamente nel mio armadio e con addosso solo quella prese a camminare per la stanza, spulciando qua e la, cosa che non aveva mai fatto prima e nella mia libreria, nascosta dietro ad una pila di libri trovo La Divina Commedia.

Lauerata in lettere, e con tesi proprio su Dante, in realtà non è che ne avesse bisogno, della mia stupida minuscola edizione economica, per citarlo a memoria…ma quella sera decise di sedersi e leggermela.
Misi ( ) dei Sigur Ros, lei prese i suoi occhiali e così, con addosso solo la mia maglia, si sedette sulla poltrona e iniziò a leggere.

Saranno stati gli occhiali (e gli occhiali da vista in una donna che non li mette mai sono una cosa che mi annienta seduta stante), saranno stati i Sigur Ros, sarà stata la neve… o forse sarà stato proprio Dante… di chiunque sia il merito / la colpa credo che fu quella la sera in cui mi innamorai.

E da quella sera, è diventato il nostro rito, l’unica abitudine in una storia dove non ce ne sono mai potute essere.

In uno di questi riti decidemmo di chiamare la sua bambina Beatrice, se lui non avesse opposto resistenza, e così fu in effetti. Lui non ha mai opposto resistenza e non ha mai provato interesse per nulla che la riguardasse, quindi non mi sorpresi quando mi disse che sì, le aveva dato il NOSTRO nome.

Qualche anno dopo, quasi per sancire la fine del pezzo di vita trascorso insieme e per cercare di riempire il silenzio del mio rancore che non accennava a scomparire, il nostro rito è ricominciato.

Che cosa strana, tornare in quella casa, e per prima cosa (nel vero senso della parola, senza esagerare) notare la sua assenza.
L’ho percepita subito e non so perché non mi sia arrivata quell’ondata di euforia che mi aspettavo. Non era quello che volevo, in fondo, che lui se ne andasse?

Sarà che non ha ancora sistemato e che quindi i rettangoli vuoti sulle pareti (cosa che mi ha dato da pensare.. pensavo che i ricchi imbiancassero..che so…una volta all’anno? Non mi immaginavo aloni, intorno ai quadri nelle case dei ricchi) sono un segno piuttosto eloquente di vuoto e in effetti non ci vuole molto sforzo a percepire che c’è qualcosa che si è cercato disperatamente di cancellare.

E quindi non ci sono più le foto del matrimonio, del viaggio di nozze e delle loro vacanze sborone, i primi piani fastidiosi di lui.. al loro posto, per ora, solo qualche foto di Beatrice, e il vuoto.
Le riproduzioni di quadri impressionisti intuisco se li sia portati via lui, perché al loro posto per ora non c’è nulla. E so che lei detesta le pareti vuote.

Solo dopo queste prime considerazioni “visive”, e senza la tanto attesa euforia che mi aspettavo di provare entrando nella casa sapendo che lui l’aveva lasciata posso finalmente concentrarmi sul motivo per il quale sono lì.
E ciò che ricordavo bello ora lo è di più, ciò che è cambiato è cambiato in meglio. Gli occhi e il sorriso sono proprio come li ricordavo e come è sempre successo riescono a paralizzarmi e demoliscono ogni tipo di difesa per quanto io possa essermi preparata.

Mi ci vuole qualche minuto, dunque, a prendere in mano la situazione, a girare il viso durante il nostro saluto e a sedermi a debita distanza.
Non ho alcuna intenzione di toccarla, non oggi, è importante che capisca ciò che ha fatto e che mi ha fatto passare e finchè non ne sarò convinta, ci saranno solo conversazioni.

E silenzi.
Parecchi, devo dire.
E quando piange, piange da sola, perché non sarò io quella che consola, non stavolta.

Io prendo Beatrice e la porto a giocare in camera sua..e quanto sembra più piccola, ora che i giochi si sono moltiplicati, e lei è cresciuta.

Nel tragitto noto che i quadri sono spariti dappertutto..nei corridoi, e da quello che posso intravedere, anche in camera da letto.

Tornando da lei noto una cosa che prima mi era sfuggita e tra le mensole scorgo proprio quella minuscola Divina Commedia, la mia.
Non ho potuto fare a meno di sorridere e deporre per un momento le armi, chiedendole di prendere i suoi occhiali, e ricominciare a leggere.

Qual è ‘l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’elli indige,
tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova;
ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.
A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle.

Io vidi già nel cominciar del giorno
la parte oriental tutta rosata,
e l’altro ciel di bel sereno addorno;
e la faccia del sol nascere ombrata,
sì che per temperanza di vapori
l’occhio la sostenea lunga fiata:
così dentro una nuvola di fiori che da le mani angeliche saliva
e ricadeva in giù dentro e di fori,
sovra candido vel cinta d’uliva
donna m’apparve, sotto verde manto
vestita di color di fiamma viva.
E lo spirito mio, che già cotanto
tempo era stato ch’a la sua presenza
non era di stupor, tremando, affranto,
sanza de li occhi aver più conoscenza,
per occulta virtù che da lei mosse,
d’antico amor sentì la gran potenza.
Tosto che ne la vista mi percosse
l’alta virtù che già m’avea trafitto
prima ch’io fuor di puerizia fosse,
volsimi a la sinistra col respitto
col quale il fantolin corre a la mamma
quando ha paura o quando elli è afflitto,
per dicere a Virgilio: “Men che dramma
di sangue m’è rimaso che non tremi:

conosco i segni de l’antica fiamma”.

Mal d’America.

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Ho il mal d’America.

Ho sempre sentito parlare del mal d’Africa, ma del mal d’America mai.

E intendo America del Nord, Stati Uniti, lo dico per i puristi che “l’America è tutto il continente”. Lo so, ma dire “Ho il mal d’America del Nord” non è proprio la stessa cosa, non credete?

Io ce l’ho, ne sono certa. Credo di avere tutti i sintomi, se esistono.

Tipo inziare ora, nel mese di dicembre, a pianificare il viaggio successivo.
Tipo iniziare conversazioni random con la frase “Eh.. ma in America” e continuandole come le nonne ovvero “il latte costa meno.. la benzina costa meno… gli alberghi costano meno… il cibo costa meno….”

In America scopri che quella degli italiani ospitali è una menzogna. Loro sono sinceramente gentili. Se sei fermo come un pirla in mezzo alla strada fissando, che so, il vapore che esce da un tombino, l’americano non ti urla contro “fora di ball” ma ti chiede se hai bisogno di indicazioni. E se ti servono, cosa che sembrerà assurda a voi stronzi che sogghignate dopo aver mandato un turista a Palestro invece che in Piazza Castello, te le da giuste, a costo di accompagnarti a piedi.

Le cassiere iniziano le conversazioni con “salve, tutto bene?”, non con un grugnito seguito da “ce l’ha la fidaty?”. In America.
Certo hanno anche i serial killer in America ma si sa, in quel caso è colpa della madre che gli ha dato poco affetto da piccoli.. probabilmente perchè faceva la cassiera e lo dava tutto ai clienti.

In America in mezzo al deserto c’è un posto che consuma più elettricità della Lombardia, e in questo posto c’è una piccola Ny, Venezia, e c’è la Tour Eiffel. Ci sono la Piramide e la Sfinge. Perchè? Perchè non sono mica come noi che perdiamo interi stipendi in luridi bar di periferia, loro se devono diventare poveri almeno hanno bisogno dell’illusione di averlo fatto divertendosi. Possibilmente sposando totalmente ubriachi degli sconosciuti.

Sono obesi, ok, ma vuoi mettere la soddisfazione di non dover leggere tutte le mattine:  “La colazione ideale: 4 tarallucci, un bicchiere di latte e un frutto” sulla confezione dei biscotti? Lì ci sarà scritto un enorme “STI CAZZI, LIFE’S TOO SHORT NOT TO EAT BACON”.

Mi mancano tante cose degli USA, alcune veramente stupide come i supermercati che sono luna park se visti con i nostri occhi, altre così personali che a descriverle si fa una gran fatica.

Cosa si provi, ad esempio, quando si parte una mattina dalla sabbia del deserto e si riapre la portiera della macchina all’Inspiration Point a Bryce Canyon, a 2.500 metri.

O a sedersi sul bordo di uno dei punti di osservazione del Grand Canyon nella totale incapacità di pronunciare parole con un senso compiuto perchè tutto è troppo grande, troppo profondo, troppo libero. Arrivare fino a Desert View in una giornata dal cielo limpido con lo sguardo che si perde per chilometri verso l’orizzonte e quando si abbassa incontra il fiume Colorado che sembra così piccolo che ci si ferma a pensare: wow, certo che hai fatto proprio un bel casino. Sedersi su una panchina ad ascoltare il ranger aspettando il tramonto.

Schivare un serpente a sonagli, passeggiare con un cervo.

Ricoprirsi di sabbia rossa nella Monument Valley e scoprirsi esperti guidatori 4×4 perchè il pulmino scoperto fa troppo turista, pregando poi ad ogni buca che all’autonoleggio non ci facciano pagare i danni.

Il calore mai sentito della Valle della Morte a qualsiasi ora, quel brivido di terrore che ti percorre il corpo quando ti allontani dalla macchina e tra i 50 gradi e il vento pensi che non ce la farai a tornare. I 4 litri d’acqua bevuti in poche ore, nelle quali non hai incontrato nessuno, se no il più totale e assoluto e meraviglioso nulla. Zabriskie Point al tramonto. Il pensiero, nella sera in cui muore Neil Armstrong, che in un posto più vicino alla luna non potresti essere.

Guidare nel west.

Può sembrare una di quelle cose ingigantite dal mito, che poi che differenza potrà mai esserci, guidare è sempre guidare, a Cormano come a Kingman.
No.

Dai, che uno poi arriva lì e le strade sono tutte uguali in fondo, sai che palle.
Oh no.

Certo uno deve crescere con quel mito della polvere e delle strade senza tempo che gli scorre nelle vene al posto del sangue per capire la necessità di prendere un aereo e dopo una media di 15 ore di volo fuggire a gambe levate dalla civiltà per finire nel nulla più assoluto, non è una cosa apprezzabile da tutti.

Ma per chi da questa malattia chiamata on the road è irrimediabilmente affetto, non c’è niente di più lontano dalla verità.

Nel west puoi guidare per 6 ore consecutive senza rendertene conto, ringraziando quelle che ti aspettavi essere delle noiosissime strade che continuano dritte per l’eternità, perchè grazie a loro puoi guardarti intorno con gridolini di meraviglia e fotografarle ad ogni microcambiamento senza rischiare di sfracellarti contro qualcosa. E’ l’unico posto in cui non parlare, in macchina, è a volte inevitabile. E’ il posto in cui quando partono Sweet Home Alabama e Take Me Home, Country Roads ci credi davvero, anche se sei in Arizona, nonostante il titolo della prima e nonostante la seconda dica “Almost heaven, west virginia, Blue ridge mountains, shenandoah river . Life is old there, older than the trees. Younger than the mountains, blowing like a breeze”. Insomma, la seconda parte va bene lo stesso, la prima è un dettaglio.

E’ difficile imbattersi contro alcunchè, in verità, ma il west è quel posto in cui il cielo prende vita e diventa qualcosa che fisseresti per sempre, non ti fa sentire nostalgia dell’umanità e ti permette di distaccarti dalla necessità della compagnia del cemento.

Il cielo. E’ enorme, sembra non finire mai, tanto che a guardarlo da sinistra a destra a volte se sei particolarmente fortunato capita di vederci 3 tipi di climi diversi: sole, pioggia, arcobaleno. Abbraccia la terra in un punto talmente lontano che è impossibile metterlo a fuoco.

Lo spazio. C’è tanto spazio nel west. C’è talmente tanto spazio che guidando abbastanza a lungo puoi tranquillamente girare un film nella tua testa mettendoci dentro qualsiasi cosa senza che questa venga intralciata dalla realtà. Il west è quel posto in cui puoi inventarti di tutto, e dimenticarti la tua vita.

Il tempo. Potrebbe essere il 1800, come il 2001. Guardando bene dietro una roccia potrebbe essere nascosto un indiano, ma dietro la collina ecco comparire un pannello solare. Non credo capiti molto spesso ai vecchietti nel west di dire “ah mi ricordo quando ero bambino e qui c’erano solo campi e nient’altro”, perchè lì è tutto come quando erano bambini. Spesso non sono cambiati neanche i diners che della loro immutata rozzezza vanno orgogliosi. Est. 1870 strillano le insegne ed è lì che il malato di America si fionda per un caffè, un pasto, una sosta.

Apre quelle porte sudice e malandate e trova quel classico pezzo country che suona al jukebox, proprio come ha sempre sognato, i divanetti di pelle uno di fronte all’altro e la cameriera incazzata che ti riempie la tazza, che essa sia piena oppure no poco importa.

Un approdo sicuro nell’immensità del deserto, ecco cosa sono i diners. Posti in cui puoi trovare la familiarità e il calore che quando tutto è così grande ti fanno una strana impressione, perchè sono cose che ti aspetteresti da quella provincia italiana fatta di case appoggiate l’una all’altra e parenti e chiacchiere, non in un luogo in cui il vicino più vicino dista un paio di km.

La polvere. Non mi è mai capitato di essere così contenta di essere sporca alla fine di una giornata, di sedermi per terra, salire su pietre dune sabbia con tanta disinvoltura, e contare i lividi con in bocca il sapore della vittoria. In America, succede. Succede ad esempio di camminare, scalare, scendere e salire più di quanto non si abbia fatto negli ultimi 5 anni messi insieme, perchè niente come l’America ti fa dire “ma sì, andiamo ancora un po’ più la”.

Poi questo “la” è talmente grande che ci si deve arrendere, purtroppo, almeno finchè saranno solo vacanze. Ma anche lì, l’America premia la tua fatica e sa salutarti a dovere.
Da un lato o dall’altro alla fine c’è sempre l’oceano ad attenderti per coccolarti prima di ripartire con le sue spiagge immense (e libere..), la gente sempre in costume, gli skateboard, il surf, le torrette dei bagnini. E’ sempre meglio passarlo lì l’ultimo tramonto americano, o almeno.. a me piace così.

Un sapore di Ruggine e Ossa

 

Aspettavo con ansia il ritorno della Cotillard in una performance degna di questo nome, con il sommo terrore che finisse come tante prima di lei che una volta raggiunto l’obbiettivo Oscar sono state colpite dalla maledizione della carriera che precipita da un burrone in Mulholland Drive, lasciando la malcapitata ancora in vita ma destinata a cameo (opzione A) o ruoli da protagonista assoluta in film mediocri (opzione B, la più comune).

Scampato pericolo.

Un sapore di ruggine e ossa (di Jacques Audiard, regista del meraviglioso Il Profeta) è un film bellissimo, struggente e la sua parte è una di quelle che lasciano il segno nell’anima e non si dimenticano tanto facilmente.

Parla di due vite lontane che si intrecciano per caso, dopo un incidente, e si salvano a vicenda.
Parla della disabilità, fisica da una parte, emotiva dall’altra.
Parla dell’amore, ma non è una storia d’amore.
Parla dell’amore per se stessi, dell’arrivare a pretendere e dare di più, del prendere coscienza di sé solo dopo avere perso, letteralmente, un pezzo di noi.

Stephanie (Marion Cotillard) fa l’addestratrice di orche in un parco acquatico. E’ bella, bellissima, e provoca per il gusto di farlo, per il potere che le garantisce.
Ali (Matthias Schoenaerts) si trova costretto a scappare nella città dove abita sua sorella che non vede da tempo, insieme al figlio che deve gestire dopo che è stato abbandonato dalla madre. Fa qualsiasi cosa: dal buttafuori in una discoteca dove conosce Stephanie che riaccompagna a casa dopo una rissa, per poi occuparsi della sicurezza notturna, dove incontra l’uomo che segretamente installa le telecamere per spiare i dipendenti dei supermercati e che nel bene e nel male gli cambierà la vita, organizzando gli incontri clandestini che lo faranno tornare sul ring e diventare professionista.


In seguito ad un incidente al parco acquatico Stephanie perde entrambe le gambe e con esse la voglia di continuare a vivere.
Il terrore del cambiamento, una vita passata a correre e a ballare che diventa un ricordo doloroso e lontano, sostituito da una sedia, un divano, un bastone. La vergogna e quella depressione che ruba qualsiasi forma di bellezza, di cura e amore per se stessi hanno il sopravvento. Come ricostruire una vita quando tutte le basi sono state spazzate via?

Impossibile.
Perchè scacciare il pensiero che da lì in avanti si verrà considerati solo ed esclusivamente partendo dalla (e in funzione della) propria disabilità è impossibile se non c’è qualcuno che anche con la forza ci convinca a farlo.

A cosa serve agghindarsi, uscire di nuovo tra la gente quando l’atteggiamento di chi si ha di fronte cambia non appena lo sguardo si abbassa?

Decide di contattare Ali perchè forse è più facile accettare uno sconosciuto nella propria vita quando chiunque altro ricorda e le ricorda chi era “prima”, e lui con la sua brutalità la costringe fuori, la porta al mare, la spinge al più semplice dei gesti con il più grande dei significati: farsi una doccia.

E quasi per scherzo le fa ritrovare ciò che forse più di tutto la fa ritornare in vita ovvero la femminilità, il desiderio, lo scoprire che “funziona ancora”. Che è ancora lei, ed è ancora viva, nonostante tutto.

Non si fidanzano, no, non è una storia d’amore così facile. Lui continua a fare la sua vita e a considerarla un’amica a cui quando è disponibile concede del sesso come fa con tante altre donne.
L’unica cosa che lo fa sentire vivo è combattere, sentire il rumore e l’odore di quelle ossa che si spezzano e gli fanno dimenticare di essere un reietto, qualcuno che la società ha scartato perchè fallito.

A farne le spese è anche Sam (il bravissimo Armand Verdure, che porta l’innocenza e la purezza in un film in cui ce n’è bisogno) che è vittima non solo della madre che lo ha abbandonato ma anche dell’incapacità del padre non solo di dimostrare ma anche di dare amore perfino a suo figlio, che considera senza fare troppi sforzi per nasconderlo poco più di un impegno, un impiccio. Fino a quando.. Non ho intenzione di rivelare il finale, questo è un film che va visto con tutta la sorpresa e l’ignoranza possibili perchè faccia ciò che deve ovvero scavarti dentro, tentare di farti distogliere lo sguardo per la troppa sofferenza, e infine fartela accettare come normale.

Mi limiterò quindi a dire che non sarà solo Stephanie a superare e a convivere con la sua disabilità rispondendo alla vita trovando un modo alternativo per gestirla, ma anche Alì riuscirà a liberarsi dell’impossibilità di concedersi, di amare. Un finale che può essere interpretato come buonista, ed è stato così definito in molte delle recensioni che ho letto. Non lo è. Non è buonista dare una tregua a un gruppo di personaggi distrutti e pretendere il finale negativo lo trovo inutilmente cinico.

 

E’ un film che parla di persone che sono come mani fratturate in apparenza guarite, ma che non guariranno mai del tutto.
Persone che soffrono ma che ad un passo dalla sconfitta si rialzano, e vincono. Certo uscendone ammaccate, con quel male sempre in agguato che torna sempre anche quando si è convinti che se ne sia andato via, per sempre.

19 mesi di patente // A Love Story

 

Giorni fa prendendo in mano la patente mi sono resa conto di due cose gravissime:

1) E’ passato poco più di un anno e sembro un personaggio di Star Trek  a cui si vedono solo gli occhi.

2) E’ passato poco più di un anno e non ho ancora scritto il post definitivo sulla guida.

Già perchè un conto è prendere la patente a 18 anni come tutti, tutt’altro discorso è aspettare i 28 anni dopo essersi fatti scarrozzare per tutta la vita e farla da privatisti circondati da un branco di adolescenti psicotici ed eccitati.
Potrei addurre i più assurdi motivi a mia discolpa ma la verità è una sola: non ne ho mai avuto voglia. Ok i miei non me l’hanno mai voluta pagare e comunque non avrei avuto una macchina. Ok poi sono andata ad abitare a Milano e li chissenefrega se hai la patente, vai in giro sempre e comunque in qualche modo.
Mi scarrozzavano, questa è la verità. E quanto è comodo stare nel sedile  del passeggerro e rompere anche le palle sulla velocità, le buche, la temperatura e la musica? Credo di essere stata una vera passeggera scassacazzi, ma c’è da dire che io almeno non dormo. E pago la benzina. A volte.

Detto questo, la patente e soprattutto l’acquisto della Dolly mi hanno cambiato la vita. Come diamine facessi prima del settembre del 2010 non riesco a spiegarmelo, dipendere dagli altri sempre e comunque per la minima necessità, zero indipendenza nella scelta di cosa fare e quando farlo. A ripensarci: un incubo.

Quindi ho deciso che si tratta di un obbligo morale tirare le somme di questa idea geniale,di  questa folgorazione che alla veneranda età di 28 mi ha colpita inspiegabilmente, prima che diventi abitudine.

Iniziamo con il dire che uno degli aspetti fondamentali è stato scegliere a costo di indebitarmi più del necessario di acquistare una macchina con cambio automatico. Ok, potete obbiettare quanto volete, descrivermi le meraviglie della guida sportiva con le marce scalate la doppietta e cazzate varie ma io non me le berrò MAI. Vi penso ogni volta che sto in coda a Cormano in perenne elastico tra gli 0 e i 40 km/h e soffro per voi, quindi non fate gli snob.

Senza cambio automatico viste le tragedie delle mie centinaia di euro di guide (e dell’indimenticabile primo esame di pratica narrato qui:   https://muchadoaboutnoth1ng.wordpress.com/2010/07/26/how-to-fail-a-…-in-10-seconds  )  probabilmente sarei morta dopo 3 mesi, con la macchina che si fermava nel bel mezzo degli incroci, pedali invertiti, autostrada tutta in prima corsia dietro ai camion a 90 all’ora.. sempre se ci sarei andata in autostrada, cosa di cui dubito fortemente. Ma soprattutto senza cambio automatico non potrei fare 50 km con un braccio solo funzionante. Son cose. Che si pagano, ma son cose.

Invece con la Dolly via verso Milano alla prima occasione, parcheggio nei silos peggiori con pendenze a 45 °,  fermate e ripartenze in salita come neanche il più navigato dei guidatori.
Certo c’è il lato negativo che consuma come una Ferrari ma vabbè oh, io già risparmio sul bere.

Ecco di seguito le scoperte fondamentali:

  • Un aumento esponenziale del mio odio per il genere umano, con tante tantissime nuove giustificazioni e per tantissime nuove categorie come:
  1. Quelli lenti
  2. Quelli FERMI in terza corsia in autostrada
  3. In generale, quelli che non se ne stanno nella prima se il resto è deserto
  4. Quelli che saltano la coda e si infilano con la freccia all’ultimo minuto. Piuttosto mi rifai la fiancata, maledetto. Da sillabare guardando il guidatore.
  5. Quelli che in coda abbagliano
  6. Quelli che in coda suonano
  7. Ho già detto quelli lenti?
  8. Quelli in doppia fila. La doppia fila a Milano è un virus da debellare.
  9. Quelli che parcheggiano nei posti invalidi e se glielo fai notare s’incazzano pure
  10. Quelli che per fare i veri duri ti stanno a culo, ti superano a 9000 giri e li ritrovi 50 metri dopo, al semaforo. Rosso.
  11. Quelli con il SUV in città, che occupano due parcheggi in lunghezza e larghezza. Ma soprattutto..
  12. Le madri che portano i figli a scuola con il SUV e siccome non lo sanno parcheggiare sostituiscono il disco orario con le 4 frecce. In doppia fila chiaramente.
  13. I ciclisti. Quelli che si mettono in fila da 4 di prima mattina quando sei in ritardo, quelli che decidono di tentare il suicidio assistito a tue spese la sera con la nebbia.
  • La bellezza della guida notturna con il cd giusto. O quello sbagliato, dipende dai punti di vista.
  • L’autostrada vuota, notte o giorno non importa.
  • Cantare ad un volume non sopportabile da altro essere umano quando si è da soli
  • Sentire un cd per la prima volta, per intero, soli.
  • Piangere con la certezza che ti vedranno solo dei passanti che poi non vedrai mai più in vita tua
  • Le gare con i suv (o gli idioti in genere) ai semafori. Perchè se è vero che tra la seconda e la terza la Dolly muore, in ripresa lascia tutti 10 metri indietro alla riga dello stop. E son soddisfazioni.
  • Portare la mamma in Duomo
  • Ultimo ma non ultimo, non ancora realizzato ma lo sarà fra qualche mese: guidare sulla Route 66, e nella Monument Valley come Thelma e Louise.

Pure Mourning

Think of two people, living together day after day, year after year, in this small space, standing elbow to elbow cooking at the same small stove, squeezing past each other on the narrow stairs, shaving in front of the same small bathroom mirror, constantly jogging, jostling, bumping against each other’s bodies by mistake or on purpose, sensually, aggressively, awkwardly, impatiently, in rage or in love – think what deep though invisible tracks they must leave, everywhere, behind them!― Christopher Isherwood, A Single Man

Una delle cose che meno sopporto nella vita e che più passa il tempo più mi diventa intollerabile è quando sentendo parlare una persona eterosessuale viene fuori con la più totale leggerezza la frase “ma sì, alla fine siamo nel 20.., viviamo nello stesso mondo e siamo tutti uguali”. Certo non arriva ai livelli di fastidio di chi per convincerti della propria apertura mentale sbandiera “sacchi” di amicizie omosessuali come se questo fosse garanzia di intelligenza o comprensione e poi alla prima occasione usa le parole normalità e accettazione come se non fossero gli insulti che sono in realtà, ma ci va vicinissimo.

Ci sono giorni in cui non ci si pensa, va detto. Siamo piuttosto sereni anche noi generalmente, ci divertiamo un sacco e almeno per quanto mi riguarda non passo il tempo ad intristirmi circa la mia condizione perché l’ho sempre vista come una forza, come un valore aggiunto su cui costruire qualcosa invece di usarla per nascordemici dietro. E c’è la vita di tutti i giorni, il lavoro, l’amore, che ti impediscono di concentrarti sempre sui massimi sistemi per fortuna o purtroppo e quando semplicemente si vive si fa poco caso alle differenze che invece ci sono e sono enormi.
Ma ogni tanto succede qualcosa che ti riporta bruscamente alla realtà, succede che leggi un libro, vedi un film e tutto il peso della tua condizione si fa intollerabile.

Può accadere ad esempio che un brutto giorno ci si sveglia e muore qualcuno di famoso. Di tanto famoso, almeno da noi. Un poeta, un artista che ha accompagnato generazioni con alcune delle più belle canzoni della musica italiana e lo ha fatto trasmettendo genialità e poesia e quel pizzico di follia che le riunisce tutte e due. Un uomo a cui tutti volevano bene e che ha sempre fatto del bene in modo molto discreto e che andandosene si porta via addirittura un pezzo della città in cui ha abitato per tutta la vita.

Non sono mai stata interessata particolarmente alle voci sulla sessualità delle persone dello spettacolo perché ho sempre pensato che i gay abbiano il brutto vizio di vedere gay ovunque quindi, visto che non si tratta di un mio problema, semplicemente non ci credo finchè il personaggio in questione non lo dichiara apertamente.
Dunque non ho mai pensato alla sessualità di questo grande poeta, perché avrei dovuto? Avrei forse percepito diversamente ciò che mi ha sempre trasmesso, se lo avessi fatto? Ovviamente no, quindi “why bother?”
Durante i giorni che sono seguiti alla sua morte ho riletto i suoi testi, ascoltato le sue canzoni a cui ormai ero così abituata che spesso non facevo caso alla bellezza e alla profondità che vi si nascondeva dietro. All’amarezza a volte, la rabbia alternate a gioia e malinconia. Ho seguito la commozione della città che lo ricordava il giorno prima del suo funerale ma ieri avendo passato tutta la giornata fuori casa, una volta rientrata ho visto solo i vari servizi dei telegiornali, i commenti dei giornali e di twitter. E da lì le cose sembravano cambiate.

Non era più il poeta il protagonista della notizia, né lo era la sua arte. No. La cosa fondamentale ora era diventata una sola: come chiamare quell’uomo disperato che in lacrime lo ricordava davanti al mondo intero urlando grazie?
Dovremmo chiamarlo compagno, collaboratore, amico? La polemica sterile su quale delle tre opzioni avrebbe causato la maggiore ipocrisia non mi interessa e non è stato quello a turbarmi perchè se per una volta i media riescono nell’incredibile compito di non infangare un morto che aveva scelto di restare nell’ombra non sarò certo io a chiedergli di farlo e non capisco in tutta onestà chi da due giorni grida allo scandalo del mancato etichettamento giornalistico.

Quello che mi ha turbata e lo ha fatto profondamente è stato il provare mentre sentivo il suo discorso a mettermi nei suoi panni. Come poteva sentirsi? Al di là della sofferenza devastante per la perdita che era percepibile da chiunque non avesse un pezzo di ghiaccio nel petto, provava anche la sofferenza dovuta al silenzio?
E’ una questione soggettiva lo ammetto, perché io sono una persona che tende a sentire quasi un bisogno fisico di raccontare l’amore, condividerlo e leggerlo ma mettendomi nei suoi panni ho sentito immediatamente quella sofferenza che non so nemmeno se sia la sua, se la stia provando o no ma che per me è e sarebbe quasi assassina e ho pianto per quello, sentendo quel GRAZIE e poi i singhiozzi.

Mi è subito tornato alla mente A Singe Man (il film, che non mi è piaciuto, ma che ricordo molto meglio del libro, un meraviglioso insieme di tristezza e solitudine che all’epoca fu per me un pugno nello stomaco e non sono certa contenga questa parte) e in particolare l’episodio in cui il protagonista non può recarsi al funerale del suo compagno perchè la sua famiglia non lo invita. E subito dopo mi è venuto in mente uno degli episodi del film Women, il primo, in cui Vanessa Redgrave perde la compagna di tutta una vita all’improvviso e dal momento che tutto ciò che possedeva era intestato a lei la sua famiglia la caccia da casa sua e le porta via tutto. Tutto, anche i ricordi di una vita passata insieme, una vita a cui la famiglia non aveva mai preso parte.

La rabbia che provai la prima volta che vidi questo film ieri è tornata su insieme alla bile mentre pensavo a quell’uomo e all’eventualità che a lui del suo compagno non resti nulla. La Redgrave nel film passa tutta la notte in sala d’aspetto in attesa di notizie mentre la sua compagna muore perchè lei non è un familiare, e quindi non viene avvisata.

Non è un familiare.

Quando lo realizzi, ogni volta che lo fai, non puoi fare a meno di pensare che no, non siamo uguali proprio per niente perchè per noi il concetto di famiglia va ampliato, va inventato e rivisto e per come sono le cose ora non ci sarà mai nessuna famiglia al di fuori da quella che non abbiamo scelto, almeno legalmente.
Come possiamo essere uguali dunque? Negli Stati Uniti non mi sentirei così probabilmente, in questi giorni mi sentirei potente vedendo che uno dopo l’altro gli Stati dell’unione stanno accettando le proposte di legalizzazione del matrimonio omosessuale, mi sentirei cosciente che lì fuori da qualche parte c’è qualcuno a cui il mio futuro sta a cuore quanto sta a cuore a me. Ma qui no.
E’ facile dire che siamo tutti uguali finchè va tutto bene, finchè riuscite a trattenervi dal fare le battute idiote che vi vengono tanto naturali e che vi dovete imporre di frenare una volta che vi “sbattiamo in faccia”, vi “imponiamo” la nostra sessualità. Non mi sento uguale a voi che non vi battete per me e vi trincerate dietro cazzate tipo “la società non è pronta”. Siete voi che non siete pronti perchè avete una paura immotivata e irrazionale che il vostro primato inventato di unico concetto possibile di futuro e vita sia intaccato dal nostro amore.

Ieri però vedendo quel ragazzo ho avuto paura anche io. Dell’ignavia, del rassegnarmi, di darvela vinta senza aver combattuto, di provare vergogna, di nascondermi. Ho avuto paura di non vivere per paura, e di farlo dando la colpa a qualcun altro.
E se avere osservato da spettatrice quel dolore può avere un qualche lato positivo sarà questo: ho intenzione di combattere affinchè a me questo non accada.

And the Oscar goes to…. Whatever

C’è qualcosa in questo silenzio post Oscar che non riesco a spiegarmi.

Non dovrebbe essere un evento eccezionale quello che ha avuto luogo? Che un film straniero (rispetto agli USA) abbia vinto tutti i premi più importanti dell’anno, un film così rischioso da essere quasi folle, uscito in pochissime sale e penultimo tra i nominati come incasso negli Stati Uniti.
Un film che è un pò la riscossa del Cinema con la C maiuscola, quello che le idee le crea e rischia tutto per far sognare. Un film che per quanto possa esserne agli antipodi ricorda Via Col Vento o Cleopatra in quanto a messaggio: questo è quello di cui la gente ha bisogno e noi vogliamo darglielo anche a costo di fallire miseramente. Perchè poteva andare così in questo caso, poteva rimanere confinato al microcosmo dei cinefili, essere ignorato e rispedire nell’oblio il regista e i suoi finanziatori.. E invece.

E invece nonostante tutte le varie teorie che ogni anno dopo gli Oscar la fanno da padrone ovvero “sono premi inutili per il cinema, premiano solo i film americani” “Il cinema vero è ben altro” “E’ tutto fatto per gli incassi e per premiare i blockbuster” quest’anno è stato proprio The Artist a vincere e questo ha zittito la voce “grossa” di queste teorie lasciando un silenzio piuttosto emblematico e non casuale visto il film di cui si parla. Via con altre teorie dunque e si parla di vittoria snob, un film del cinema per il cinema, un film che se la racconta invece che raccontare e via dicendo e non potrei trovarmi meno d’accordo.

Certo capisco un pò di sano campanilismo anti francese, ma non dovrebbe essere superato, almeno nell’arte.. almeno dagli addetti ai lavori? No perché se la mancanza di entusiasmo popolare posso aspettarmela quella dei media proprio no.. soprattutto se consideriamo il peso dato alla “sconfitta” del cortometraggio animato italiano La Luna. Gli unici commenti letti riguardano quello, nessun approfondimento invece delle dimensioni in cui sarebbe giusto per Francesca Lo Schiavo e Dante Ferretti arrivati al terzo Oscar questa volta per Hugo Cabret, ed è probabile che se non avessero menzionato l’Italia nel loro discorso di ringraziamento non sarebbe neanche stato mandato in onda dai telegiornali.

Chi fa cinema e lo ama non dovrebbe avere come intento primario quello di cercare di convincere il pubblico ad andare in sala, soprattutto in un caso come questo in cui lo spettatore medio deve essere incitato ad andare a guardare un film per cui non sente nessuna attrazione a causa del pregiudizio “bianco e nero / muto”? Secondo me sì, e io questa spinta non l’ho sentita.

Quello che manca in questi giorni è proprio quello di cui The Artist è pieno: l’entusiasmo.
Continuando a vedere in questo film e in Hugo Cabret solo qualcosa di nostalgico senza coglierne il dirompente invito a ripartire dal sogno che il cinema è nato per regalare avremo perso tutti un’occasione.

Tra moglie e marito non mettere il dito (ma il GPS sì)



San Valentino.

Per esorcizzare questa drammatica giornata decido con mio marito di andare a vedere un film particolarmente leggero e romantico, sempre per il filone “ciò che non ti uccide ti fortifica”: Rabbit Hole. Film che entrambi abbiamo visto più volte in lingua originale ma 8 euro di biglietto non si negano a nessuno, figuriamoci a Nicole Kidman.

Tutto pronto dunque, esco dall’ufficio e dopo una coda eterna all’uscita di Cormano mi dirigo come sempre al Bicocca Village.

Altra premessa, al contrario delle persone normali che per organizzarsi discutono, l’unica conversazione avvenuta tra noi due in merito è stata “Lo danno al Plinius e al Bicocca” due giorni fa e “Ci vediamo lì alle 1945”.

Ad un certo punto una fame devastante si impossessa di me, prendo il cellulare e decido di chiamarlo per chiedergli di iniziare a comprare una piadina, qualcosa di commestibile a caso, ed è qui che si consuma il dramma (che lascio descrivere direttamente da lui visto che non saprei fare meglio):

 

Spettacolo delle 20.10.

Kia chiama beps alle ore 19.53.
K: Beps..tu hai già mangiato?
B:no..te?
K: no e ho una fame da lupi!Mentre arrivo vai a prendere una piadina in quel baretto dove andiamo spesso…Intanto 5 minuti e sono li..
B: Baretto?Ma oggi è lunedì..è tutto chiuso!
K: Chiuso?Ma se sono aperti sempre..in che senso chiuso..
B: chiuso, tutto chiuso..tutti i bar..
K: ma che strano…
B:..un momento..Kia, io sono al Plinius, sai dove si trova vero?Non lo stai confondendo…?
K:Plinius?Ma che minchia dici?Io sono in viale zara e sto andando al Bicocca Village.
…..
…..
…..
B: al bicocca????Ma nooooo!Io sono al Plinius!
K: e dove è sto cazzo di Plinius!!!!
B: ma è quello in viale abruzzi!!!
K: e io coem cazzo ci arrivo in viale abruzzi????..Ah no, ci so arrivare!Ok, 5 minuti e son li!
B: Ma Scusa, ma non ti avevo detto di venire al Plinius??
K: eh no, io pensavo al Bicocca perchè andiamo sempre li..

In realtà Beps in questo ricordo è stato piuttosto generoso perchè quando mi sono resa conto che sarei dovuta andare  da Viale Fulvio Testi a Viale Abruzzi in 10 la disperazione si è impadronita di me e al telefono ho detto “Non ce la farò mai”.

Ma invece, grazie al mio gps integrato e alla scaltrezza della Dolly, alle ore 20.20 ero davanti al cinema con in mano la cena dei campioni: Barretta specialK e Estathè!

Ndr. Alla piantina qui sopra manca tutto viale Zara e Fulvio Testi, ad esser precisi

IAA // iPhone Addicts Anonymous

Non sono mai stata tipo da giochi e una volta finita l’epoca del Nintendo e delle sale giochi ho deposto il joystick senza più riprenderlo in mano per almeno un decennio.

Troppo lunghi i giochi e soprattutto mi sono sempre sentita inabile io, MAI FINITO UNO IN VITA MIA. Forse perchè mi rompo le balle prima, o più probabilmente perchè proprio di concentrarsi per capire come scavalcare una siepe il mio cervello non ne vuole sapere.

Ma, e c’è sempre un ma, dopo.. molto dopo, è arrivato l’iPhone. E insieme a lui, le applicazioni.

Una condanna. Mi ripeterò in questo caso ma chiunque stia pensando “ma dai, come si fa a giocare con il cellulare” non ha mai preso in mano un iPhone. Non ha mai vissuto l’iniziale brivido dello zoom con due dita, non ha mai urlato “noooooooooooooo” la prima volta che per provare l’accelerometro ha distrutto l’aereo in mezzo al mare e soprattutto non ha mai maledetto il malcapitato che telefonando in un momento inopportuno ha interrotto un probabile record mondiale, e iniziato la telefonata con il suddetto malcapitato con un infastidito: “spero per te che sia importante”.

Quindi ho iniziato a pescare con il mio iPhone lanciando le cuffie per tutta la metropolitana per buttare l’amo, ingaggiato pesanti battaglie con la polizia dando spallate ai poveri vicini di posto per distruggere le fiancate altrui, schiacciato furiosamente i quadratini colorati di Plock per superare l’impossibile livello 9, saltato tra i palazzi con il volume sparato al massimo per poi infrangermi contro un muro dopo la distanza record di…. 400 metri.

Per riuscire a leggere un libro in bagno sono arrivata al punto di lasciare l’iPhone fuori perchè in caso contrario con la scusa “facciamo un livello solo” il libro durava mesi e soprattutto per uscire dal bagno ormai paralizzata avrei dovuto chiamare il 118.

Ma niente, niente poteva prepararmi alla dipendenza, quella vera, da Angry Birds.

Il gioco non è che sia complesso: si tratta di lanciare uccellini con una fionda per distruggere con il numero minore di colpi dei simpatici porcellini verdi.

Ovviamente il gioco si fa più complesso con il passare dei livelli, aumenta il numero e la varietà di uccellini, i porcellini si mettono il casco e i blocchi che li proteggono diventano a mano a mano più pesanti il che rende la dipendenza quasi inevitabile.

Perchè (ed è piuttosto imbarazzante da ammettere) l’adrenalina prodotta da un livello superato è una droga: risparmiare ben tre uccellini poi, indescrivibile.

I livelli sono infiniti, e la seconda sfida è terminarli tutti con il punteggio più alto.. praticamente impossibile, viene da dire lanciando il telefono (contro una superficie morbida, ovviamente).

Salvo poi fissarlo per dieci minuti, scusandosi, e riprenderlo in mano.. inesorabilmente.

Il mio 2010, secondo Facebook

La fantastica filosofia “più ti lamenti, più ti nascondo” applicata a me stessa medesima ha portato a intere settimane senza status che danno a questo “collage” l’aspetto di un riassunto di un anno normale, invece che l’inferno in terra.

E’ stato l’inferno solo sotto alcuni aspetti, però, che mi rifiuto di mettere al primo posto nel bilancio di questo 2010. Quindi no, diciamo pure che è stato un anno figo. Se si tralasciano la salute, le innumerevoli delusioni cinematografiche e il lavoro, direi che la bilancia pende nettamente dal lato positivo.

C’è stato un viaggio a Berlino assurdamente paiass che ha regalato uno dei più bei video della storia.

Un altro viaggio, a Parigi, che ha visto il record del minor numero di ore passate fuori dall’hotel.

Ci sono stati 3700 chilometri in 3 stati degli Stati Uniti, e un bel pò di sogni realizzati.

Un matrimonio, a Las Vegas, da sobria.

La patente, finalmente.

E la Dolly, l’acquisto migliore che io abbia mai fatto in vita mia.

Ci sono stati concerti, un discreto numero e tutti più o meno decenti.

I punti fermi della mia vita sono rimasti tali, e i pezzi che ho perso per strada era giusto facessero quella fine probabilmente.

C’è stato Ritorno al Futuro al cinema.

E poi c’è stata Gaga! Che siccome merita un discorso a parte, merita anche un Year in Status a parte che spiega tutto meglio di come farei io.