Shelter from The Storm

Quando una persona ti accompagna per quasi tutta la vita, spesso illuminandola come se all’improvviso il velo che avevi davanti agli occhi fosse scomparso; proprio quando non hai certezze nemmeno su quale sia il tuo nome figurarsi sul tuo futuro, beh ad un certo punto ci si inizia a prendere una certa confidenza.

Forse troppa.

Si creano aspettative, si tende anche involontariamente a giudicarne le scelte.

La mia fede non è mai venuta meno, sia chiaro, ma alcune scelte estetiche, stilistiche e artistiche mi hanno lasciata perplessa, quasi frustrata perché non riuscivo più a riconoscerla e incredibilmente, stupidamente, ero terrorizzata dall’idea di questo tour. Ripeto la parola stupidamente perché la nostra storia insieme avrebbe dovuto rassicurarmi, la fiducia se l’è ampiamente guadagnata. Ma si sa, a volte vorremmo che le persone che amiamo crescessero secondo le nostre preferenze, come vorremmo noi, magari come faremmo noi.

Temevo tutto: look, featuring, setlist. Una completa imbecille.

Sapete io e lei abbiamo una storia lunghissima, lunga almeno quanto le amicizie più forti, che parte dal 1998. Di quella prima volta ho scritto spesso, è talmente importante ed è la volta di cui percepisco ancora le emozioni secondo per secondo. Non era un tour, erano pochi minuti concentrati. Era follia, erano urla lacrime gioia. Il primo vero tour fu invece nel 2001, il Drowned World Tour. Tour che per me ha cambiato tutto perché da li in poi il confronto con qualsiasi altro spettacolo è stato semplicemente impossibile.

Ci sono stati tanti tour da allora e alcuni di questi mi hanno regalato le più belle esperienze e avventure della mia vita, incontri che mi hanno cambiato l’esistenza, posti che non avrei mai visitato, perché ogni tour era ed è una scusa per rivedersi, per viaggiare e creare ricordi.

Going straight to the point, avendo visto tutti i tour dal 2001 in avanti non posso dire che questo: il Celebration Tour di cui tanto avevo paura, è il migliore di tutti.

Come ha detto il mio amico Nicola non è perfetto come il Confessions (né lei è perfetta come nel Confessions), ma forse per questo motivo è migliore.

Potremmo parlare del livello tecnico dello show, che resta inarrivabile per quasi tutti. Potremmo parlare dell’utilizzo degli schermi, delle luci, dello stesso palco. Sono fattori che senz’altro influiscono ma non sono loro a renderlo il suo spettacolo più bello di sempre: credo che a farlo sia la continuità.

È un musical, è il biopic su cui da tanto sta lavorando. Ci vuole prendere per mano per raccontarci la Sua storia e per farlo affida il ruolo di Virgilio a Bob che inizia ricordandoci per cosa dobbiamo ringraziarla, che cosa ci ha insegnato (e no, non è lì solo a scaldare l’atmosfera, la sua presenza in questo concerto è fondamentale anche se temo che a molti sia sfuggito).

Ho letto diversi commenti che giudicano l’opening di questo tour “anticlimactic” e sono in assoluto disaccordo. Nothing Really Matters è l’opening che nessuno si sarebbe mai aspettato e mette subito le cose in chiaro: TUTTO QUELLO CHE VI DO MI TORNA INDIETRO. NON SARÒ MAI LA STESSA SENZA DI VOI. Lo ripete 3 volte, che sia ben chiaro, questo show racconta la sua, la nostra storia. Strappa il cuore e mi basta questo, non c’è bisogno di fuochi d’artificio per definire un opening ben riuscito.

La parte anni 80 è semplicemente strepitosa e regala una Open Your Heart di cui non sapevo di aver così dannatamente bisogno, oltre che a regalare il momento più bello e meritato a Daniele Sibilli.

Difficilmente si vedrà ancora in un concerto pop qualcosa di livello così alto come la transizione da Holiday a Live to Tell: la fine del party, la musica che rallenta e la gigantesca ombra di quel mostro in quel momento sconosciuto, l’AIDS, che si fa pesante, schiacciante. Vediamo la morte, e lei che timidamente vi assiste non potendo far niente se non offrire il suo conforto come ha raccontato lei stessa nel discorso del 1 dicembre.

La morte. Un aspetto che non aveva mai trattato nei suoi tour come se fosse parte del racconto e che qui è ben presente. Live to tell inizia e sugli schermi appaiono i volti delle persone che abbiamo perso a causa dell’AIDS. Famosi, certo, ma anche persone comuni le cui storie sono raccontate quotidianamente dalla pagina Instagram The AIDS Memorial. L’esibizione è potente, devastante, sicuramente uno dei picchi della sua carriera. La morte torna in modo ancora più vivido quando ci ricorda di come pochi mesi fa avremmo potuto perderla. Canta I will Survive con la chitarra, lentamente, perché quel che conta è il messaggio: sono sopravvissuta e ho ancora tanto da dare, tanto amore da dare.

L’amore è un altro tema presente in tutto lo show: nei nostri confronti, da Nothing Really Matters in cui è più plateale fino alla scelta di alcuni pezzi sicuramente “secondari” per un ascoltatore casuale ma non per un fan (devo ancora darmi dei pizzicotti per realizzare che il trittico Erotica-Rain-Bad Girl non è stato solo un sogno). L’amore per i figli, presenti ovunque sia sul palco che fuori, presenti nei discorsi, nelle performance, negli sguardi. Alcuni scambi di sguardi tra lei e David e Mercy sono tra le cose che più mi sono rimaste impresse dal vivo purché ne ho percepito orgoglio e affetto spropositati da entrambe le parti. L’amore per sua madre, l’amore per la vita, l’amore per se stessi e per il proprio vissuto (con la se stessa più giovane presente accanto a lei in più segmenti).

Ma non è tutto sorrisi e cuori questo show, come potrebbe esserlo dovendo raccontare la sua carriera. C’è chi cerca di fermarla, chi cerca di usarla come esempio di tutto ciò che è male e lei risponde: I’m not your bitch don’t hang your shit on me. Che è un po’ il riassunto di tutta la sua carriera e una frase che va bene oggi come nel 1990, nel 1992, nel 1995 o negli anni 2000. Lei è sempre stata troppo: troppo audace, troppo spregiudicata forse, troppo esplicita, sicuramente troppo coraggiosa per una società puritana, terrorizzata dal sesso, dal corpo femminile e dal potere della conoscenza.

Non ha mai avuto paura e questo è uno degli insegnamenti fondamentali che ci ha sempre trasmesso: non importa quali siano le conseguenze non abbiate paura di essere ciò che siete. E lei paura non ne ha per niente, non ha paura del suo corpo che è cambiato ma lo mostra forse di più di quanto non abbia fatto negli ultimi 3 tour. Non ha paura di fare entrare le persone dall’altra parte dello specchio che è il suo Instagram. La vediamo senza filtro alcuno, bella, bellissima, sensuale come non mai.

Questo è forse l’insegnamento più grande che porto via da questi concerti: amare se stessi. Amarsi di più, apprezzare la vita, perché siamo fortunati ad essere ancora qui e per alcuni di noi è un vero miracolo.

Pure Mourning

Think of two people, living together day after day, year after year, in this small space, standing elbow to elbow cooking at the same small stove, squeezing past each other on the narrow stairs, shaving in front of the same small bathroom mirror, constantly jogging, jostling, bumping against each other’s bodies by mistake or on purpose, sensually, aggressively, awkwardly, impatiently, in rage or in love – think what deep though invisible tracks they must leave, everywhere, behind them!― Christopher Isherwood, A Single Man

Una delle cose che meno sopporto nella vita e che più passa il tempo più mi diventa intollerabile è quando sentendo parlare una persona eterosessuale viene fuori con la più totale leggerezza la frase “ma sì, alla fine siamo nel 20.., viviamo nello stesso mondo e siamo tutti uguali”. Certo non arriva ai livelli di fastidio di chi per convincerti della propria apertura mentale sbandiera “sacchi” di amicizie omosessuali come se questo fosse garanzia di intelligenza o comprensione e poi alla prima occasione usa le parole normalità e accettazione come se non fossero gli insulti che sono in realtà, ma ci va vicinissimo.

Ci sono giorni in cui non ci si pensa, va detto. Siamo piuttosto sereni anche noi generalmente, ci divertiamo un sacco e almeno per quanto mi riguarda non passo il tempo ad intristirmi circa la mia condizione perché l’ho sempre vista come una forza, come un valore aggiunto su cui costruire qualcosa invece di usarla per nascordemici dietro. E c’è la vita di tutti i giorni, il lavoro, l’amore, che ti impediscono di concentrarti sempre sui massimi sistemi per fortuna o purtroppo e quando semplicemente si vive si fa poco caso alle differenze che invece ci sono e sono enormi.
Ma ogni tanto succede qualcosa che ti riporta bruscamente alla realtà, succede che leggi un libro, vedi un film e tutto il peso della tua condizione si fa intollerabile.

Può accadere ad esempio che un brutto giorno ci si sveglia e muore qualcuno di famoso. Di tanto famoso, almeno da noi. Un poeta, un artista che ha accompagnato generazioni con alcune delle più belle canzoni della musica italiana e lo ha fatto trasmettendo genialità e poesia e quel pizzico di follia che le riunisce tutte e due. Un uomo a cui tutti volevano bene e che ha sempre fatto del bene in modo molto discreto e che andandosene si porta via addirittura un pezzo della città in cui ha abitato per tutta la vita.

Non sono mai stata interessata particolarmente alle voci sulla sessualità delle persone dello spettacolo perché ho sempre pensato che i gay abbiano il brutto vizio di vedere gay ovunque quindi, visto che non si tratta di un mio problema, semplicemente non ci credo finchè il personaggio in questione non lo dichiara apertamente.
Dunque non ho mai pensato alla sessualità di questo grande poeta, perché avrei dovuto? Avrei forse percepito diversamente ciò che mi ha sempre trasmesso, se lo avessi fatto? Ovviamente no, quindi “why bother?”
Durante i giorni che sono seguiti alla sua morte ho riletto i suoi testi, ascoltato le sue canzoni a cui ormai ero così abituata che spesso non facevo caso alla bellezza e alla profondità che vi si nascondeva dietro. All’amarezza a volte, la rabbia alternate a gioia e malinconia. Ho seguito la commozione della città che lo ricordava il giorno prima del suo funerale ma ieri avendo passato tutta la giornata fuori casa, una volta rientrata ho visto solo i vari servizi dei telegiornali, i commenti dei giornali e di twitter. E da lì le cose sembravano cambiate.

Non era più il poeta il protagonista della notizia, né lo era la sua arte. No. La cosa fondamentale ora era diventata una sola: come chiamare quell’uomo disperato che in lacrime lo ricordava davanti al mondo intero urlando grazie?
Dovremmo chiamarlo compagno, collaboratore, amico? La polemica sterile su quale delle tre opzioni avrebbe causato la maggiore ipocrisia non mi interessa e non è stato quello a turbarmi perchè se per una volta i media riescono nell’incredibile compito di non infangare un morto che aveva scelto di restare nell’ombra non sarò certo io a chiedergli di farlo e non capisco in tutta onestà chi da due giorni grida allo scandalo del mancato etichettamento giornalistico.

Quello che mi ha turbata e lo ha fatto profondamente è stato il provare mentre sentivo il suo discorso a mettermi nei suoi panni. Come poteva sentirsi? Al di là della sofferenza devastante per la perdita che era percepibile da chiunque non avesse un pezzo di ghiaccio nel petto, provava anche la sofferenza dovuta al silenzio?
E’ una questione soggettiva lo ammetto, perché io sono una persona che tende a sentire quasi un bisogno fisico di raccontare l’amore, condividerlo e leggerlo ma mettendomi nei suoi panni ho sentito immediatamente quella sofferenza che non so nemmeno se sia la sua, se la stia provando o no ma che per me è e sarebbe quasi assassina e ho pianto per quello, sentendo quel GRAZIE e poi i singhiozzi.

Mi è subito tornato alla mente A Singe Man (il film, che non mi è piaciuto, ma che ricordo molto meglio del libro, un meraviglioso insieme di tristezza e solitudine che all’epoca fu per me un pugno nello stomaco e non sono certa contenga questa parte) e in particolare l’episodio in cui il protagonista non può recarsi al funerale del suo compagno perchè la sua famiglia non lo invita. E subito dopo mi è venuto in mente uno degli episodi del film Women, il primo, in cui Vanessa Redgrave perde la compagna di tutta una vita all’improvviso e dal momento che tutto ciò che possedeva era intestato a lei la sua famiglia la caccia da casa sua e le porta via tutto. Tutto, anche i ricordi di una vita passata insieme, una vita a cui la famiglia non aveva mai preso parte.

La rabbia che provai la prima volta che vidi questo film ieri è tornata su insieme alla bile mentre pensavo a quell’uomo e all’eventualità che a lui del suo compagno non resti nulla. La Redgrave nel film passa tutta la notte in sala d’aspetto in attesa di notizie mentre la sua compagna muore perchè lei non è un familiare, e quindi non viene avvisata.

Non è un familiare.

Quando lo realizzi, ogni volta che lo fai, non puoi fare a meno di pensare che no, non siamo uguali proprio per niente perchè per noi il concetto di famiglia va ampliato, va inventato e rivisto e per come sono le cose ora non ci sarà mai nessuna famiglia al di fuori da quella che non abbiamo scelto, almeno legalmente.
Come possiamo essere uguali dunque? Negli Stati Uniti non mi sentirei così probabilmente, in questi giorni mi sentirei potente vedendo che uno dopo l’altro gli Stati dell’unione stanno accettando le proposte di legalizzazione del matrimonio omosessuale, mi sentirei cosciente che lì fuori da qualche parte c’è qualcuno a cui il mio futuro sta a cuore quanto sta a cuore a me. Ma qui no.
E’ facile dire che siamo tutti uguali finchè va tutto bene, finchè riuscite a trattenervi dal fare le battute idiote che vi vengono tanto naturali e che vi dovete imporre di frenare una volta che vi “sbattiamo in faccia”, vi “imponiamo” la nostra sessualità. Non mi sento uguale a voi che non vi battete per me e vi trincerate dietro cazzate tipo “la società non è pronta”. Siete voi che non siete pronti perchè avete una paura immotivata e irrazionale che il vostro primato inventato di unico concetto possibile di futuro e vita sia intaccato dal nostro amore.

Ieri però vedendo quel ragazzo ho avuto paura anche io. Dell’ignavia, del rassegnarmi, di darvela vinta senza aver combattuto, di provare vergogna, di nascondermi. Ho avuto paura di non vivere per paura, e di farlo dando la colpa a qualcun altro.
E se avere osservato da spettatrice quel dolore può avere un qualche lato positivo sarà questo: ho intenzione di combattere affinchè a me questo non accada.

The Gayest Friday Ever

Il giorno venerdì 11 febbraio 2011 verrà ricordato come una delle giornate campali per la comunità omosessuale italiana.

E non per quisquilie quali il riconoscimento dei diritti civili, il matrimonio o l’adozione per le coppie omosessuali,  no, niente di tutto questo.

Bensì per due eventi tra i più camp che la storia recente ricordi: l’uscita del nuovo singolo di Lady Gaga e di Burlesque.

Per quanto riguarda il primo c’è poco da fare: non ho mai visto in vita mia un delirio tale (in negativo e in positivo) generato dall’uscita in radio di un singolo. Mai. Sarà che i social network esistono da poco ma se la mia pagina Facebook avesse anche l’audio avrei sentito per tutta la giornata un misto di urla isteriche con picchi che neanche Mariah ai tempi d’oro e insulti e bestemmie e canzoni di Madonna sparate in loop per esorcizzare il mostro, anzi The Mother Monster, che nonostante i vani tentativi di sembrare buona magnanima e tenera con questa comunità fa più paura di Hannibal Lecter.

Il testo è un inno, un inno un pò banale nel testo ma whatever, Lady Gaga non è Bob Dylan e una canzone alla Bob Dylan come inno gay ci sarebbe stata come la nutella sulle tagliatelle. – e no, sono stata troppo tempo all’interno di questa comunità per accettare critiche sul “luogo comune”: non lo è -.

E’ un pezzo che distruggerà le piste da ballo, e il primo pezzo di questa portata in cui viene presentata tutta la comunità omosessuale, transgender compresi, un grido di libertà da domenica sera sudato e alcolico. What we need, insomma.

Poi mi rendo conto di avere probabilmente le orecchie foderate di pilu (ma magari..) ma io non riesco a sentire Express Yourself neanche se mi impegno, quindi mi sento un pò fuori da tutta la polemica che si è allargata come un virus fino ad arrivare a “trendare” twitter.. ma forse anche questo è un segno di quanto è immenso, in questo momento, il potere mediatico che ha la piccola Germy.

Il fatto che il canale Youtube ufficiale di Madonna si sia sentito in dovere di caricare il video dell’esibizione ai VMA’s (e considerato che il suo staff è una sorta di onlus dove la gente viene pagata per beneficenza visto che fanno NULLA e la promozione gliela facciamo noi gratis la cosa fa ancora più ridere) un pò mi rattrista perchè comincio a vedere i primi deliri da star dominante che non divide il palcoscenico ma tant’è, se così dev’essere così sia. Chi ci guadagnerà da questo atteggiamento alla lunga non è difficile immaginarlo però.

Ma torniamo a noi, in fondo era il camp week end quindi non rattristiamoci e andiamo avanti con Burlesque, che è quanto di più camp si possa immaginare: Cher. Christina Aguilera. Burlesque ovvero: tante donne poche tette. L’assistente gay che ruba i fidanzati alla ballerina. Un bono da paura con spogliarello in 3 fasi. Balletti. Coreografie. La rivalsa della ragazza di provincia.

Gli ingredienti ci sono tutti e devo ammettere, sono amalgamati molto meglio di quanto pensassi. Insomma ero entusiasta di questa uscita ma senza troppe pretese, mi bastava anche il ritorno di Cher in un ruolo importante per essere soddisfatta, invece mi sono dovuta ricredere perchè è un film onestissimo, senza la pretesa di essere questo grande capolavoro ma un paio d’ore di puro intrattenimento.

I numeri musicali (dei quali avevo un pò paura visto il problema che ho con le urla inopportune della Aguilera) mi sono piaciuti, ben orchestrati e visivamente bellissimi (lodi alla fotografia), le canzoni sono tutte strepitose (sono una romanticona…………..no non è vero un cazzo ma tentavo di giustificare il fatto che le mie preferite sono Bound to You e You Haven’t Seen the Last of Me), la storia non è nemmeno così inesistente perchè oltre alla scalata verso il successo della protagonista (e ho apprezzato che non sia finito con l’uscita di un disco o una performance allo Staples Center ma si sia limitato al successo in piccolo, il che rende tutto un pochino più credibile) ci sono anche le difficoltà economiche della proprietaria del locale e i suoi sforzi per salvarlo, i problemi di alcolismo e maternità inaspettata delle ballerine, i sogni, gli amori vaghi e dimenticabili, i regali.. le Laboutin.

La Aguilera è brava, più brava di quanto immaginassi soprattutto trattandosi di un debutto, è bella quanto basta, non tanto bella da rendere inverosimile il racconto ma è Cher l’unica donna del film. Ogni volta che compare è come se sul resto del cast apparisse una coltre di nebbia che rende impossibile concentrarsi su altro. E’ questo, ho sempre pensato, ciò che fa di una grande Diva una Diva da D maiuscola… la presenza. Lei non fa quasi nulla in certi momenti, entra in scena e distrugge tutto con una parola.

Inoltre, e qui mi si perdoni il momento vagamente gerontofilo, è di una bellezza sconvolgente in certe inquadrature.

La scena fondamentale? Cher che distrugge con un piede di porco (mai più senza) il finestrino di una delle ballerine che si è permessa di utilizzare l’aggettivo proibito: Vecchia. Una scena che riassume bene, benissimo, tutto questo intenso week end Pop.

Howl // L’Urlo

Ci ho messo un pò a maturare un’opinione su questo film e credo che il motivo sia che non è un film come tutti gli altri, nonostante nel trailer abbiano infilato scene del processo per  dare un senso di Biopic classico, per non allontanare spettatori probabilmente, che si sarebbero forse tenuti lontani se il film fosse stato descritto per ciò che è ovvero un lungo, poetico, confuso e meraviglioso grido.

Un insieme di cose, un flusso di pensieri costante, è storia, è voce, è musica, è animazione, proprio come tutte queste cose sono Howl, il poema di Ginsberg da cui è tratto.

E’ un film che regala ottimismo nonostante tutto, perchè non è passato molto tempo da quei giorni e forse ancora si può recuperare qualcosa di quello spirito e di quella libertà. Certo non siamo a San Francisco qui, e al contrario il nostro premier si premura di ricordare al suo popolo appena può che l’unica via giusta e corretta è quella della famiglia, dell’uomo e della donna che lavorano, comprano casa e producono prole.

Quello invece era il tempo delle idee, il tempo in cui la cosa figa era avere qualcosa da dire, anche se questo poteva costarti la libertà, e da questo punto di vista come tutti sappiamo è un film a lieto fine, perchè il bigottismo fu battuto e Howl è diventata una delle opere più famose della poesia Americana.

Franco è strepitoso, anche se inizialmente ammetto di aver avuto dei dubbi perchè dal trailer mi sembrava tutto troppo enfatizzato. E invece no, lo staresti ad ascoltare per ore ed è proprio lui a renderti invidioso di chi ha avuto la possibilità di stare seduto, una sera, a sentire Ginsberg leggere, recitare, urlare Howl, l’urlo di dolore e ringraziamento a chi ha contribuito a rendere la società e la cultura americane quello che sono oggi.

Ed è così che vi consiglio di leggerlo, ad alta voce, quasi urlando.

I saw the best minds of my generation destroyed by madness, starving hysterical naked,
dragging themselves through the negro streets at dawn looking for an angry fix,
angelheaded hipsters burning for the ancient heavenly connection to the starry dynamo in the machinery of night,
who poverty and tatters and hollow-eyed and high sat up smoking in the supernatural darkness of cold-water flats floating across the tops of cities contemplating jazz,
who bared their brains to Heaven under the El and saw Mohammedan angels staggering on tenement roofs illuminated,
who passed through universities with radiant eyes hallucinating Arkansas and Blake-light tragedy among the scholars of war,
who were expelled from the academies for crazy & publishing obscene odes on the windows of the skull,
who cowered in unshaven rooms in underwear, burning their money in wastebaskets and listening to the Terror through the wall,
who got busted in their pubic beards returning through Laredo with a belt of marijuana for New York,
who ate fire in paint hotels or drank turpentine in Paradise Alley, death, or purgatoried their torsos night after night
with dreams, with drugs, with waking nightmares, alcohol and cock and endless balls,
incomparable blind streets of shuddering cloud and lightning in the mind leaping towards poles of Canada & Paterson, illuminating all the motionless world of Time between,
Peyote solidities of halls, backyard green tree cemetery dawns, wine drunkenness over the rooftops, storefront boroughs of teahead joyride neon blinking traffic light, sun and moon and tree vibrations in the roaring winter dusks of Brooklyn, ashcan rantings and kind king light of mind,
who chained themselves to subways for the endless ride from Battery to holy Bronx on benzedrine until the noise of wheels and children brought them down shuddering mouth-wracked and battered bleak of brain all drained of brilliance in the drear light of Zoo,
who sank all night in submarine light of Bickford’s floated out and sat through the stale beer afternoon in desolate Fugazzi’s, listening to the crack of doom on the hydrogen jukebox,
who talked continuously seventy hours from park to pad to bar to Bellevue to museum to the Brooklyn Bridge, a lost batallion of platonic conversationalists jumping down the stoops off fire escapes off windowsills off Empire State out of the moon
yacketayakking screaming vomiting whispering facts and memories and anecdotes and eyeball kicks and shocks of hospitals and jails and wars,
whole intellects disgorged in total recall for seven days and nights with brilliant eyes […]

Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte da pazzia, morir di fame isteriche nude
strascicarsi per strade negre all’alba in cerca di una pera di furia hipsters testadangelo bramare l’antico spaccia paradisiaco che connette alla dinamo stellare nel meccanismo della notte,
che povertà e stracci e occhiaie fonde e strafatti stavan lì a fumare nel sovrannaturale
buio di case con acqua fredda librati su tetti di città contemplando jazz,
che il cervello spogliavano al Cielo sotto l’Elevata vedendo angeli maomettani barcollare su tetti di condomini illuminati,
che in università eran di passaggio con occhi raggianti e cool allucinando Arkansas e Blake-lumilievi tragedie tra studiosi della guerra,
che erano espulsi da accademie per pazzo e osceno pubblicare odi sulle finestre del cranio,
che in camere non sbarbate impauriti s’acquattavano in mutande, bruciando i soldi nella carta straccia e ascoltando il Terrore di là dalla parete
che si facevan beccare con barba pubica tornando via Laredo con cintura di marijuana per New York,
che mangiavan fuoco in hotel ridipinti o bevevan trementina in Paradise Alley, morte, o si purgatoriavano il torace notte dopo notte con sogni, con droghe, con incubi a occhi aperti, alcol e cazzo e balle-sballi senza fine, incomparabili strade cieche di nube rabbrividente e fulmine nella mente saltando verso Canada e Paterson i poli, illuminanti tutto l’immoto mondo dell’Intra-tempo,
solidità peyotiche di sale, retrocortiletti verdi alberi albe da cimitero, sbronza di vino su tetti, quartieri di vetrine in corsa da cannarolo su macchina rubata neon intermittente semaforo, sole e luna e
vibrar d’alberi nel frastuono invernale dei crepuscoli a Brooklyn, comizi in cima a pattumiere e sottile sovrana luce della mente,
che si incatenavano alla metro in corsa senza fine da Battery a santo Bronx fatti di benzedrina finchè
il rumor di ruote e bambini li buttava giù tremolanti bocca autotorturata e il tetro del cervello spremuto d’ogni brillanza nella luce cupa dello Zoo,
che sprofondavan tutta notte in luce sottomarina da Bickford, tornando a galla per pomeriggi
birra stantia nel desolato bar Fugazzi, ascoltando lo scoppio del giudizio finale al hydrogen-jukebox,
che parlavan di continuo settanta ore da parco a casetta a bar a manicomio Bellevue a museo a Brooklyn Bridge,
un battaglione perso di conversatori platonici che si buttan giù da scalini giù da scale antincendio da davanzali dall’Empire State
piombando sulla luna, ciacolando strillando vomitando sussurrando fatti e memorie e aneddoti e sballi ottici e shock d’ospedali e galere e guerre, interi intelletti rigurgitati con assoluta precision di memoria per sette giorni e sette notti con occhi lucidi […]

Gandalf, mio caro Gandalf.

 

Semplicemente adorabile, e soprattutto tanto, tanto avanti.

Qui il link della campagna contro l’omofobia nelle scuole britanniche: http://www.stonewall.org.uk/education_for_all/news/current_news/2043.asp

Trovate anche la versione HQ della foto sopra da scaricare,  magari per farci una tshirt da Pride che sostituisca quella con la scritta HIT ME BABY ONE MORE TIME con la freccia verso i vostri culetti, che è perfettamente inutile neghiate di possedere.