On The Road // USA 2010 // Part 2


There is a pleasure in the pathless woods,
There is a rapture on the lonely shore,
There is society, where none intrudes,
By the deep sea, and music in its roar:
I love not man the less, but Nature more.


Lungo il tragitto verso Los Angeles si passa dal mio clima preferito di tutto il viaggio (Williams – roba da passarci interi mesi, tipo da giugno a settembre, come spiego all’anziano barbuto che al mercatino ci ha venduto le targhe e che mi racconta degli splendidi quanto rigidi inverni del Grand Canyon) al phon puntato contro la faccia, nel deserto.

Scendere dalla macchina è una tortura e sembra quasi di sentire ridere le anime dei gironi Danteschi. Come faccia la gente ad abitare in questi posti è una domanda che mi sono posta più volte vedendo case posizionate in mezzo al nulla con zero ombra e tetti di lamiera e alla quale prima o poi dovrò dare una risposta. Nel frattempo però ad un abitante che mi chiede “hot, uh?” posso solo rispondere “crischtodiddiosimuore”, testualmente.

Il suddetto caldo però non mi ferma però dal fare uscire Beps dall’autostrada una volta avvistato l’ennesimo cartello “Historic Route 66”. Dal benzinaio non sappiamo a chi chiedere però, temendo sia una domanda idiota (e in effetti lo è), così sento parlare italiano e mi avvicino a due motociclisti che inizialmente sembrano espertissimi ma che in realtà non sanno un cazzo o molto più probabilmente si sono beccati un’insolazione a girare nudi in moto per il deserto, quindi li saluto e decidiamo di chiedere al commesso nonostante la possibile figuraccia e viene fuori che sulla Route c’eravamo praticamente sopra quindi prendiamo la nostra Giallina e ci avventuriamo sull’asfalto più raccontato del mondo.

E’ piccola, se paragonata alle strade che abbiamo percorso fino ad ora, probabilmente per preservarne l’atmosfera di monumento nazionale non viene più sistemata ed è assolutamente deserta e questo ci da modo di sederci in mezzo alla strada nonostante l’ustione garantita per fotografarla e soprattutto fotografarci sul suolo sacro per ogni seguace del beat. Inutile dire che le visioni di folle di personaggi, autostop e polvere si susseguono e che l’emozione è fortissima, ancora una volta.. ma la soddisfazione per aver realizzato un altro sogno nella mia personalissima lista dei sogni è ancora più grande.

L’arrivo a Los Angeles, dopo tutto questo e dopo il Grand Canyon e quella splendida oasi che è Williams è quanto mai traumatico, un brusco ritorno alla civiltà che mi lascia interdetta e infastidita e che faccio piuttosto fatica ad accettare per qualche ora. Fortunatamente arriviamo giusto in tempo per cenare e fare poco altre e la notte provvederà a cancellare questa sensazione ma non posso evitare che il mio pensiero corra subito a Christopher McCandless, per l’ennesima volta durante questo viaggio.

Mi riferisco ovviamente al McCandless cinematografico e in particolare alla scena di Into The Wild in cui anche lui si ritrova a Los Angeles dopo aver girato zone sperdute degli Usa e resta spiazzato dal rumore, dal cemento e dall’indifferenza e scappa via.

La tentazione di seguire i suoi passi e fare altrettanto è stata forte devo ammettere, ma c’è qualcosa di ancora più forte a trattenerci: il giorno dopo ci attendono le visite agli Studios.

Dobbiamo rinunciare alla Paramount, che vediamo solo da fuori, perchè non effettuano tour di sabato e noi abbiamo solo quel giorno a disposizione, ma abbiamo già i biglietti per il Vip Tour della Warner Bros ed è lì che ci dirigiamo di buon’ora. Dove ci dirigeremmo, sarebbe meglio dire, se il navigatore decidesse di collaborare ma non è così, quindi ci ritroviamo per la prima volta traditi da Mr Tom Tom a girare per due ore da un’indirizzo all’altro ma dall’altra parte della città rispetto a dove dovremmo essere. Una volta arrivati a destinazione quasi un’ora dopo l’inizio, almeno teorico, del nostro tour ci avviciniamo mestamente al banco con la certezza di aver ormai perso i soldi dei biglietti e invece scopriamo che la fortuna incredibilmente ci assiste ancora!

Non vedendoci arrivare infatti, ci hanno spostato in uno dei tour successivi senza alcun problema e ad aggiungere soddisfazione a soddisfazione riceviamo anche i complimenti per la splendida tshirt “Fiori D’Acciaio” indossata da Beps. Ci resta poco più di una mezz’ora dunque, durante la quale giriamo per lo store decidendo già quali acquisti fare alla fine del tour, e credetemi.. in mezzo a quel ben di Dio avremmo comprato di tutto.

Circa un quarto d’ora prima dell’inizio veniamo portati in una piccola sala proiezione dove viene trasmesso un filmato che contiene la storia della Warner e in particolare un montaggio di tutto ciò che hanno prodotto. Poi ci viene presentata la nostra guida, Asia, e veniamo portati fuori per le raccomandazioni e per accomodarci sul cart che ci avrebbe trasportato in giro per gli Studios. La prima e più importante delle raccomandazioni è che le macchine fotografiche e i nostri effetti personali saranno chiusi a chiave per la prima parte del tour, e scopriamo subito perchè. Dopo un breve tragitto infatti veniamo portati al museo della Warner Brothers, dove sono conservati i più famosi costumi utilizzati nei loro film, come ad esempio il Cavaliere Oscuro, Charlie and The Chocolate Factory, Million Dollar Baby e Gran Torino, come anche alcuni dei costumi utilizzati dai più grandi attori della storia di Hollywood come Bette Davis, John Wayne, Marlon Brando e James Dean. Il tempo è poco quindi ci viene consigliato, se siamo fan di Harry Potter, di dare un’occhiata prima al piano di sopra che è interamente dedicato alla saga.

Per quanto io sia fan però, passo con Beps la maggior parte dei 25 minuti concessi al piano terra, a cercare di scorgere  tracce di vita nei costumi che tante volte abbiamo visto sullo schermo, lanciando gridolini estasiati come se non si trattasse solo di vestiti ma di segni inequivocabili che non stiamo sognando.

La gita al piano di sopra però devo ammettere che è stata piuttosto divertente. Qualsiasi cosa vi possa venire in mente di uno dei film di Harry Potter, era lì. Dal cartello di Private Drive, agli occhiali di Harry e Silente, ai costumi di tutti gli attori, i tiri vispi Weasley, Aragog, i Dementors, il sottoscala e le lettere del primo anno, la mappa del malandrino e il cappello parlante! Decidiamo che alla giornata manca ancora un adeguato livello di spaiassate quindi ci sediamo sullo sgabello e facciamo scegliere al cappello la casa alla quale saremo assegnati: Tassorosso per Beps e…… Serpeverde per me. Che delusione!

I 25 minuti come previsto finiscono in fretta, e il tour riparte con la liberazione delle nostre macchine fotografiche.. mai così utili perchè scatto foto praticamente a qualsiasi cosa mi capiti davanti agli occhi. Subito ci ritroviamo a New York, e due minuti dopo a Chicago, davanti alla metropolitana utilizzata in ER, per fermarci poi appena raggiunto il midwest. E’ la parte più curiosa perchè a detta anche dei “nativi” è praticamente identica ad una qualsiasi cittadina, e le case che vi sono disseminate sono infatti state protagoniste di molti dei telefilm prodotti dalla Warner.  In questo momento è utilizzato quasi interamente per le riprese di Pretty Little Liars, come ci racconta Asia, insieme ad un milione di altre cose interessantissime portandoci in giro per una visita a piedi di qualcuna delle case utilizzate, scopriamo poi, anche in numerosi film come qualsiasi cosa si trovi su quel suolo.

Risaliamo sul nostro cart e diamo un’occhiata ai numerosi set a cui passiamo accanto, con Asia che spiega quali film e quali serie sono state girate al loro interno. In uno di questi viene girato l’Ellen Degeneres Show e ci viene concesso di vederlo sul serio, già pronto per la nuova stagione che sta per iniziare, con il gatto “di casa” che ci segue in cerca di attenzioni. Curiosissima la storia dei gatti degli Studios, a quanto pare pretesi da James Cagney che li volle per sterminare i ratti che avevano invaso il suo camerino e che da allora sono rimasti lì.

Facciamo una sosta al reparto dove i decoratori dei set scelgono i mobili e gli accessori delle case (dove invito Beps a trafugare due delle tags con le quali vengono “prenotati” i mobili) poi in una specie di museo delle auto dove troviamo il Generale Lee e la macchina, davvero incredibile, del Cavaliere Oscuro, insieme alla mitica Gran Torino, e per finire sorpresona per tutti i fan di Friends (non sono una di loro quindi la mia emozione era un pò attutita): il Central Perk! Effettivamente era suggestivo in quanto era tutto esattamente come uno se lo ricorda, con tanto di Ferrero Rocher d’epoca e menu scritto sulla lavagnetta.

Facciamo una foto sul green screen che verrà poi sostituito da uno dei set di Harry Potter (da buoni paiass ci posizioniamo con le bacchette in mano come se stessimo duellando) e dopo una visita alla foresta Warner dove troviamo i set di True Blood, Million Dollar Baby e della scena dell’inseguimento del T Rex di Jurassic Park,  il tour finisce.

Per una semplice questione di bagaglio ci tratteniamo dal comprare almeno 16 tazze differenti e ci limitiamo ad acquistarne un totale di 4, più magliette e portachiavi in abbondanza, e ci dirigiamo verso gli studi Paramount, la prossima tappa.

Come accennato prima purtroppo non effettuano tour di sabato quindi ci limitiamo a scattare foto e ad immaginare Gloria Swanson sulla sua graziosa automobile che arrivata al gabbiotto del custode chiede del sig. DeMille.

La batteria della mia macchina fotografica spossata dall’intensa mattinata muore,  il che ci costringe a fare una pausa pranzo incredibilmente all’ora di pranzo o quasi mentre si ricarica e poi ripartiamo: Universal Studios here we come! Non trovarli è semplicemente impossibile trattandosi quasi di una città, Universal City appunto, ed è un posto davvero pazzesco.

Consuma più luce di una qualsiasi piccola cittadina italiana, e ha una percentuale imbarazzante di cibo per metro quadro, qualcosa di difficilmente immaginabile. E non solo, negozi di qualsiasi genere e tipo e ovviamente di souvenir e gadget cinematografici… tutto questo ancora prima di arrivare all’Universal!

Che, scopriamo, è una specie di Gardaland del cinema con attrazioni, giochi e divertimenti. Ci precipitiamo immediatamente verso la fila dello Studio Tour si rivela una decisione saggia dal momento che durerà circa un’ora e mezza e sarà la fila più lunga, in lunghezza, che io abbia mai fatto. Fortunatamente si cammina durante quasi tutto il tragitto quindi non ci si fa caso, soprattutto perchè si è accompagnati da foto e filmati di film che fanno passare il tempo più velocemente.

Chiariamo subito che è l’opposto, totalmente, rispetto al Vip Tour della Warner, a cominciare dal nome. Qui di vip non c’è nulla, il trenino trasporta insieme a noi non 10 persone ma almeno 200, se non di più. E va molto, molto più in fretta. Ma per come è strutturato il divertimento è assicurato e di cose mi fanno cadere la mandibola più volte durante il tragitto ce ne sono parecchie.

Vediamo qualche stage, qualche strada di NY di sfuggita e poi subito il primo colpo: siamo nella piazza di Hill Valley, in Ritorno al Futuro!

La guida è fantastica, sono pronta a scommettere diventerà famosa in qualche modo perchè per tutto il percorso non fa altro, tra una spiegazione tecnica e l’altra, che farci ribaltare in continuazione. Con una profusione di battute e soprattutto l’imitazione di Keira Knightley, un vero spettacolo.

Ma torniarmo al tour: uno dopo l’altro si susseguono New York, Parigi, Roma, il vecchio west e il Messico, dove abbiamo un assaggio degli effetti speciali che simulano pioggia e inondazioni (ho già menzionato che sono dal lato sbagliato del pulmino?), poi le varie auto (e dove appena avvistata la Delorian per poco non cado fuori), esibizione di effetti speciali e finalmente lui: King Kong. Il 3d 360° indescrivibile, e lo dimostra il fatto che ho rischiato seriamente di commuovermi per l’emozione. Peccato sia durato poco perchè io un’altra decina di minuti l’avrei gradita, ma posso capire che organizzare una cosa del genere che dura più tempo implicherebbe di utilizzarlo come attrazione a se stante che evidentemente non era negli scopi della Universal.

Indossiamo i nostri occhialini 3d e subito veniamo circondati dalla foresta e da un TRex minaccioso che con il muso sposta il pulmino che.. ragazzi miei, si muove. Balzi, strattoni, schizzi d’acqua, ed ecco che interviene Kong, salvandoci da morte certa proprio mentre stiamo per precipitare nel vuoto. E la sensazione di vuoto è spettacolare, non so come abbiano fatto a ricrearla fatto sta che mentre si precipita tra una liana e l’altra gli “oh cazzo oh cazzo” piovono a secchiate.

Il tour però prosegue, e cominciano i vari set: Jurassic Park, Grinch, Psycho, Jaws e La Guerra dei Mondi, per arrivare infine a quello che, come per Friends, temo di essere l’unica a bordo ad apprezzare davvero poco: Wisteria Lane. E’ il più realistico anche perchè lo stanno utilizzando in questo momento, con tanto di luci accese e macchine parcheggiate nei vialetti, ed è bellissimo. Se solo  la trama avesse su di me anche solo una minima attrattiva, un set così mi avrebbe certamente spinta a vederne almeno qualche puntata.

Prima che il tour si concluda faccio ancora in tempo a farmi nominare dalla simpatica guida “Passeggera del giorno” per aver lanciato un urlo disumano alla vista dei due leoni “Lyon Estates”, sempre di Back to The Future, e poi quasi senza rendercene conto, ci troviamo di nuovo ai piedi della Whoopy che indicava l’ingresso.

Tirando le somme, il tour della Warner è senza dubbio più intimo, più tecnico e più informativo e da proprio la sensazione di essere NEL cinema. Quello dell’Universal invece è strutturato più come un’attrazione, molto divertente senza dubbio ma mi sono sentita più come a Gardaland che su un set cinematografico. Che è un’ottima cosa, per carità, è stato davvero divertente ed emozionante ma se dovessi esprimere una preferenza tra i due sceglierei sicuramente Warner Brothers.

Prima di uscire però notiamo gruppi di persone che escono da una porta sbellicandosi o gridando e decidiamo di dare un’occhiata. E’ la casa degli orrori Universal, simile a quella di Gardaland per intenderci ma con tutti i personaggi dei film horror da loro prodotti. Decidiamo di entrare ovviamente e credo di non aver mai riso tanto in vita mia come in quei 10 minuti. In teoria non era esattamente quello lo scopo, mi sarei dovuta spaventare e inizialmente è così, poi però veniamo raggiunti da un’enorme afroamericana e da un gruppo di cinesi che hanno reazioni così assurde a qualsiasi cosa che passo tutto il restante tempo appoggiata alle pareti in preda a convulsioni: l’apice viene toccato quando la suddetta enorme e simpaticissima ragazza corre verso di noi in punta di piedi urlando come una pazza..poco dopo siamo nella stanza di Chucky che in assoluto è una delle cose che mi hanno sempre terrorizzata di più specie da piccola ma questa volta non fa effetto, le risate sono troppo forti.

Resta il tempo di fare incetta di peluches di ET e regali vari, e poi con un freddo ormai autunnale ci precipitiamo in macchina. Una mezz’oretta dopo siamo in albergo, e anche questa delirante giornata è finita. E delirante è l’unica parola che mi viene in questo momento, perchè ce ne sono poche che renderebbero meglio l’idea.

Vedere quelle cose con i propri occhi, passare un’intera giornata nel nostro ambiente naturale ed emozionarsi alla vista di un camion del catering non è cosa da tutti, nè soprattutto è cosa da tutti i giorni. Abbiamo avuto un assaggio, certo, ma uno di quegli assaggi che ti lasciano con l’acquolina in bocca e la sensazione che è proprio così, che è quello il luogo “where it all happens”, e dove speriamo di poter portare, someday, le nostre tazze “Writer” e “Director”.

Vado a letto con il sorriso sulle labbra, certa di avere aggiunto a questo viaggio un tassello fondamentale quanto indimenticabile.

Il giorno dopo siamo ancora frastornati ma si continua con i sogni e le stelle: una decina di minuti dopo aver lasciato l’hotel siamo all’inizio della walk of fame. L’inizio sbagliato, scopriamo dopo, e il mio entusiasmo lascia presto il posto ad un passo accelerato e veloci sguardi sotto ai miei piedi. Già perchè queste belle stelline, date un pò a chiunque e questo contribuisce non poco a far affievolire l’emozione iniziale, vanno avanti per chilometri e la nostra prossima tappa è proprio alla fine di questa lunga galassia.

Quando arriviamo al Kodak Theatre sono così devastata che per poco non rinuncio alla visita guidata ma per fortuna Beps riesce a convincermi. Visita guidata che effettivamente è un pò un furto, 15 dollari per vederne la hall, il bar e l’interno ora ricoperto di cellophane mi sembrano un pò troppi ma devo ammettere che è comunque abbastanza figo camminare in quelle stanze e avere una visuale inedita della sala dove si celebra l’evento più atteso dell’anno!

Terminata la visita andiamo in pellegrinaggio, come doveroso, al Chinese Theatre, vedendo di sfuggita anche l’Hotel Roosevelt sede dei primi Oscar. Rischiamo un’insolazione ma non rinunciamo alle foto paiass  sulle impronte di Marilyn, Gloria Swanson, Meryl e Bette Davis e troviamo anche il tempo di deridere la Loren che a quanto pare non solo non conosce la lingua inglese ma neanche l’italiano visto che ha scritto sul cemento un enigmatico “solo per sempre” che tutt’ora ci chiediamo quale significato possa avere.

Visto il caldo torrido di quella giornata decidiamo di scappare letteralmente verso la spiaggia e tra le varie opzioni all fine optiamo per Venice. Per nessuna vera ragione se non che lì dovrebbe trovarsi Muscle Beach, e benchè alla fine non siamo riusciti a trovare gli omaccioni che sollevano pesi all’aria aperta si è rivelata un’ottima scelta.

E’ tutto come l’abbiamo sempre visto in tv: i ragazzi di colore perfetti che giocano a basket, i bianchi sullo skate, i surfisti, gente che gira in costume in bici e donne insospettabili vestite da impiegate che tornano a casa in skateboard e… le torrette!

Chiunque sia cresciuto tra gli anni 80 e i 90 non può non avere impresso a fuoco nella mente questo aspetto delle spiagge losangeline: le torrette, i bagnini, e le macchinone gialle.

Le torrette ora sono colorate, e purtroppo non ho visto in giro nessuna Pamela Anderson ma il fascino dei bagnini è intatto, con la loro giacchetta rossa e salvagente sempre in mano.  Per un attimo, faccio schifo lo so, ho anche sperato che qualcuno andasse troppo al largo per vederne correre uno, salvagente a tracolla e bracciate da 10 metri l’una.

Non sono una grande amante del mare, ma qui fa freddo e passare un pò di tempo in spiaggia non mi dispiace. Vestita, naturalmente, con cappellino e zaino: se non avessi i piedi nudi potrei tranquillamente essere un escursionista di montagna al contrario di Beps che tira fuori tutto il coraggio che possiede e resta prima senza maglia e per qualche minuto addirittura con uno splendido costumino rosso fuoco.

Alle 19 circa con ormai visioni di calamari fritti e hamburger riusciamo finalmente a convincerci che è ora  di.. pranzare, dopodichè un pò a malincuore lasciamo Venice perchè prima di tornare in albergo per la nostra ultima notte a Los Angeles ci resta ancora una tappa: Mulholland Drive.

Spiegare l’emozione per una strada è veramente difficile e noto che mi sta capitando sempre più spesso scrivendo questo post: non riuscire a dare una spiegazione ai propri sogni ogni tanto è frustrante. Va da se che la venerazione per David Lynch e per quello che è uno dei suoi capolavori è la motivazione principale  del brivido che corre lungo la schiena quando ne vediamo il primo cartello e il buio ci sommerge completamente.

Già, perchè volutamente a Mulholland Drive decidiamo di andarci proprio di sera e che sia stata una grandissima idea lo scopriamo appena il buio ci inghiotte. Mulholland Drive è una strada piuttosto lunga, ad una corsia per senso di marcia e senza un guardrail che sia uno. La maggior parte della strada è a strapiombo sul nulla e i lampioni scarseggiano quindi è abbastanza terrificante già di suo,  ma il panorama che si può godere di Los Angeles soprattutto di notte è semplicemente spettacolare. Purtroppo senza cavalletto e con la batteria della videocamera scarica non abbiamo nessun ricordo di quella visione ma non credo la dimenticherò molto facilmente. In ogni caso prima di tornare in albergo percorriamo la strada ancora un paio di volte, sia perchè starci sopra dà una strana, bellissima sensazione, sia perchè siamo alla ricerca di un cartello situato in posizione fotografabile senza farci investire o precipitare nel vuoto.

La mattina successiva ci rimettiamo in viaggio, dopo una sosta dalla nostra spacciatrice cinese di muffin e croissants, questa volta in direzione di San Francisco. Il viaggio, insieme a quello del ritorno è il viaggio più noioso, niente da guardare in tutto il tragitto se non le ribattezzate montagne kiwi, ovvero montagnette ricoperte di quelli che sembrano peli gialli, distese di mucche seguite da distese di vigneti o campi con dentro messicani a raccoglierne i frutti. Il tragitto che avrebbe regalato meraviglie in abbondanza è quello della costa,  ma ci sarebbe servito un giorno in più che sfortunatamente in questo viaggio non abbiamo.

Impovvisamente ci troviamo davanti una serie di nuvole basse e pesantissime, che prendono il posto del cielo azzurro che avevamo sulla testa fino a pochi chilometri prima e sotto di loro il cartello San Francisco.  E’ proprio così, non è una leggenda metropolitana, il clima a San Francisco è il clima di San Francisco ed è un clima diverso rispetto a tutto il resto della California.

Entrando in città infatti, con i nostri pantaloni corti e t shirt, iniziamo a scorgere giacche a vento, ponchos di lana e in qualche caso persino sciarpe. Il palazzo dietro al nostro hotel è parzialmente coperto da una coltre di nebbia e il vento è pungente. Prima del meritato riposo decidiamo di accontentarci di una rapida cena in una pizzeria italoamericanamessicana poco distante perchè la stanchezza del viaggio non può certo combattere con le pendenze incredibili delle strade di San Francisco, e il nostro hotel si trova in una conca circondata da salite vertiginose.

Per la prima giornata decidiamo di concederci un vizio da turisti, ovvero la visita guidata della città su un tram elettrico.  Scegliamo quello sbagliato, va detto, perchè ce n’era uno che si chiamava “Ride the Duck” che ti portava in giro su un pullman a forma di barca (e che infatti poteva entrare in acqua) ma soprattutto ti dotava di simpatici becchi di papera in cui soffiare per importunare i passanti durante il tragitto.

Il nostro tour però è ricchissimo, dura due ore e vediamo cose che probabilmente non avremmo visto durante la nostra permanenza, ovvero tutti i quartieri principali, il Golden Gate da una visuale abbastanza particolare (per farsi perdonare la partenza ritardata del giro) e poi dal classico punto turistico ovvero Vista Point. La guida è un anziano signore nato e cresciuto a San Francisco, e arricchisce la visita di informazioni sulla storia della città e aneddoti della sua infanzia. Quando alla fine torniamo a Fisherman’s Wharf (zona bellissima quanto turistica del porto) ci consiglia un ristorante di pesce dove ci fiondiamo visto che ancora una volta abbiamo quasi tirato le 16. Mangiamo benissimo, fritto misto per cominciare e poi “Francesco’s Misto” ovvero la loro versione delle nostre linguine allo scoglio, al sugo… buonissimo come la quantità industriale di pesce che ci troviamo nel piatto ma che purtroppo visto l’aglio che conteneva ci si riproporrà per svariate ore.

Fisherman’s Wharf non è uno dei luoghi più consigliati dopo aver mangiato in abbondanza e se si ha la nausea facile, infatti sia io che Beps diventiamo verdi in due nanosecondi appena passiamo accanto alle varie bancarelle dove vengono esposti e cucinati granchi giganteschi e decidiamo di scappare per andare a dare un’occhiata alla famossissima Lombard Street, o almeno alla parte splendida e impressionante che ne fa la strada più ripida al.. mondo? – non ne sono certa, ma di sicuro di San Francisco sì.

Non la percorriamo in macchina, parcheggiamo vicino alla parte in cui iniziano i tornanti e scendiamo facendo i gradini (senza pensare al fatto che poi avremmo dovuto rifarli per risalire) per scattare qualche foto dal basso e la scalata successiva è il delirio: ovviamente il tutto viene immortalato in un video nel quale all’apice della blasfemia citiamo le fermate della Via Crucis.

Rinvigoriti da questo ENORME sforzo fisico decidiamo, prima di tornare in hotel, di fermarci prima per una breve visita a Castro, per un’assaggio di quell’oasi di orgoglio e libertà che è il regno di Harvey Milk. Ce ne innamoriamo subito ovviamente, nonostante il freddo e le nuvole che coprono il cielo, così dopo una tappa in libreria dove acquistiamo bracciali e orsacchiotti arcobaleno decidiamo di tornarci per un intero pomeriggio l’ultimo giorno.

Le strade sono….. ho finito gli aggettivi, posso ripetere pazzesche? Ma lo sono e i video esilaranti che abbiamo girato ne sono la prova: se non si è abituati è come andare sulle montagne russe e percorrerle con cambio normale anzichè con quello automatico richiederebbe skills di guida paragonabili solo a quelli di Michael Schumacher.

Il secondo giorno a San Francisco ci attende come da programma una gira fuori porta: il faro di Point Reyes.

Innanzitutto ho avuto la conferma che non soffro il mal d’auto. I ringraziamenti vanno a Beps e alla sua guida perfetta, ma con 30 chilometri di tornanti ho avuto il terrore di sparpagliare il pranzo delle 17 sul parabrezza.

Parlando di cose serie invece, mi sentirei di ricordare, nell’ordine:

  1. foche che riposano sulla battigia
  2. distese di manzi facciatosta
  3. una clamorossa puzza di merda che a momenti ci fa uscire di strada provocata dai suddetti manzi facciatosta
  4. la ricerca di un benzinaio che neanche nel deserto è durata tanto, terminata nello stesso momento dell’accensione della spia della riserva. Ora, saremo stupidi noi (probabile) ma non è che sia ancora molto chiaro quanto duri la riserva. Quindi nel dubbio, l’obbiettivo è non farla accendere. MAI.

Passando alle cose serie ma veramente serie, durante la prima sosta per chiedere informazioni circa il benzinaio, decidiamo di fare un piccolo sentiero a piedi, denominato “The Earthquake trail”. Il sentiero passa in alcune delle zone dell’epicentro del terremoto del 1906, con cartelli di spiegazioni e un recinto lasciato esattamente come allora, separato di circa 4 metri.

Terminata la scampagnata ci rimettiamo in viaggio, passiamo West Marin e proseguiamo per il faro di Point Reyes.

Scopriamo che martedì e mercoledì è chiuso e temiamo che per una volta la fortuna ci abbia abbandonati, ma in realtà è chiuso solo il centro visitatori e i gradini che portano direttamente al faro, mentre la scogliera è fortunatamente accessibile.

Ribadisco fortunatamente perchè una volta sopra ci affacciamo e scopriamo con immensa emozione che proprio lì sotto c’è un gruppo di leoni marini ma soprattutto un branco di balene che passa avanti e indietro, salendo in superficie per respirare, con quel soffio che ti fa emettere gridolini da bambino, per poi tornare sott’acqua alzando quell’enorme codona!

Incredibile, non riesco a commentare in nessun altro modo.

Mentre siamo sul faro sentiamo, quasi costantemente, i suoni delle navi di passaggio. Non le vediamo ma quel suono è bellissimo, quasi rilassante, soprattutto se sommato ai versi degli innumerevoli uccelli presenti sulla penisola e quelli dei leoni marini sotto di noi.

Dopo una sosta per il solito pranzo pomeridiano decidiamo di fare un’ultima tappa per togliere dalla lista un’altra visuale del Golden Gate, di modo di avere l’ultima giornata libera dagli impegni turistici. Un freddo sporcaccione ma anche una vista magnifica da Baker Beach, e colori, anche questa volta al tramonto, da spezzare il fiato.

Ma perchè perchè perchè camminare sulla spiaggia è così faticoso? Al termine della “passeggiata” credevo di morire.

Morta davvero era invece la povera foca impigliata in delle catene (o corde) che abbiamo incontrato sulla spiaggia, che tristezza.. una cosa che non deve capitare di rado ma che ci riporta sulla terra, quella popolata da umani e dalla quale per un pò ci siamo sentiti distanti.

L’ultimo giorno lo utilizziamo per gli acquisti finali, che come ogni volta mi riprometto di non fare prima di partire per poi cambiare idea all’ultimo minuto e scoprire, una volta terminato di distribuire le cose che ho comprato aprendo la valigia, che per me non ho preso praticamente nulla. Maledetta generosità! Sistemo la famiglia dunque, e finalmente trovo persino qualcosa per mia madre, ma prima andiamo a Twin Peaks a dare un’occhiata a quella che sulle guide descrivono come la vista più bella della città, e lo è davvero.

Facciamo tappa alla casa dove è stato girato Mrs Doubtfire e poi via, verso Castro per il nostro ultimo pomeriggio a San Francisco. Diamo un’occhiata con immensa invidia al programma del teatro omonimo e pranziamo da Harvey’s, locale bellissimo con alle pareti foto di Milk e in generale della comunità gay dell’epoca, facciamo qualche giro per altri acquisti e in men che non si dica i negozi stanno chiudendo.. è già ora di andare.

L’atmosfera del quartiere è stupenda, ti senti proprio libero, come a casa, libero ad esempio di girare con un pappagallo sulla spalla, se ti va.

Resta il tempo di produrre gli ultimi video scandalosi con gli oggetti acquistati: la mattina si parte per Los Angeles. Il panorama è sempre quello noioso dell’andata, aggravato da una coda nel bel mezzo di nulla, ma dopo sette ore eccoci puntuali in albergo, pronti a lottare contro le nostre valigie.

La mattina dopo non soddisfatti dalla quantità di video prodotti (solo 98), partiamo con un bel pò di anticipo dall’hotel per colmare le lacune paiass, dopodichè giriamo ancora un po’ con la nostra giallina nel tentativo di finire la troppa benzina fatta il giorno prima ma alla fine dobbiamo proprio andare. Ci attende un viaggio lunghissimo, reso ancora più duro e triste dalla pochissima voglia che abbiamo entrambi di tornare alla vita di tutti i giorni, e al vecchio continente che mai come in quei momenti ci era sembrato così vecchio.

Potrei fare un bilancio del viaggio, parlare di cosa mi lascerà dentro negli anni a venire e di cosa dimenticherò, ma non voglio farlo perchè sono sentimenti ed emozioni che bisogna vivere. E non intendo che bisogna viverle per capire, intendo proprio che BISOGNA provarle. DOVETE provarle. Non lasciate che le ore di volo o la paura di immensi budget vi impediscano di fare quella che sarà, sono pronta giurarvelo, una delle più intense esperienze della vostra vita.

Il resto delle foto qui: http://www.wix.com/muchadoaboutnoth1ng/Photography

Muchadoaboutnoth1ng // The Pictures

Dopo infiniti tentativi di creare galleries decenti qui su wordpress ho rinunciato, e dopo aver rinunciato ho deciso di sbattermi per qualche ora per creare uno spazio dove fosse più semplice postare le gallerie di foto relative ai post che pubblico sul blog o che semplicemente mi va di condividere.

Di semplice effettivamente non c’è stato proprio un bel cazzo ma questo è il risultato, probabilmente è pesantissimo e non proprio fluido, ma dateci un’occhiata.

http://www.wix.com/muchadoaboutnoth1ng/Photography

Gandalf, mio caro Gandalf.

 

Semplicemente adorabile, e soprattutto tanto, tanto avanti.

Qui il link della campagna contro l’omofobia nelle scuole britanniche: http://www.stonewall.org.uk/education_for_all/news/current_news/2043.asp

Trovate anche la versione HQ della foto sopra da scaricare,  magari per farci una tshirt da Pride che sostituisca quella con la scritta HIT ME BABY ONE MORE TIME con la freccia verso i vostri culetti, che è perfettamente inutile neghiate di possedere.

The weight we carry is love

“The weight of the world

is love.

Under the burden

of solitude

under the burden

of dissatisfaction

the weight

the weight we carry

is love.”

Song


Trattasi di vero e proprio furto (grazie Jimmuzzu) ma fisso questa foto da un paio di giorni, ovvero da quando è morto Peter Orlovsky, partner per 40 anni di Ginsberg. E’ una foto meravigliosa (Avedon, mica pizza e fichi), ipnotizzante, tenera. E provo un pò d’invidia, anche solo a pensare ai loro dialoghi.

Berlino // 9.0 (o 10.0)

La verità è che non lo ricordo. Se sono 9 o 10 intendo. Ce ne dev’essere una corta che ho tentato di rimuovere, ne sono certa. Poi ormai sono anziana e le cose più vecchie le ricordo a fatica. E meno male.

Ok basta deliri.

Che posso dire di nuovo, dopo 9 visite? In realtà posso confermare lo stupore, che non cessa mai, a trovarsi davanti certe meraviglie architettoniche. Le solite cose un pò da provinciali quali siamo, che notiamo noi italiani ovvero cosa funziona bene rispetto all’Italia. Un sacco di cose, ma stavolta mi trovo a stupirmi nel museo della DDR, pensando che da noi, un museo dove si utilizzano le cose che sono esposte, si ritroverebbe vuoto o distrutto dopo una settimana. Già vedevo gruppi di studentelli a rubare manciate di chicchi di caffè.

Sono provinciale lo ammetto, ma in fondo Milano è un comune, rispetto a tante città Europee, e noi come evoluzione più o meno siamo al livello dell’uomo di Neanderthal, c’è poco da fare (non menzionatemi gli italiani intelligenti del passato perchè non vale se sono morti da più di 300 anni).

Detto questo, è stata una delle più belle vacanze della mia vita. Mai riso tanto, preso tanto freddo, camminato e visto. Mai stata così vicina alla Porta di Brandeburgo a dormire, ad esempio. Mega affarone fatto qui: http://www.booking.com/hotel/de/apartments-am-barndenburger-tor.html?label=gog235jc;sid=b63050136d708b1254d47e5de0bdfe24

Appartamento da sei, bellissimo, enorme, in una posizione che non me la sarei neanche sognata. Dalla nostra finestra del salotto (finestra enorme, in pratica il soggiorno che ho sempre desiderato) vedevamo le stanze da 1000 euro dell’Adlon e mi veniva quasi da ridere. Compagni di viaggio splendidi e paiass, i deliri sono cominciati ad Orio al Serio e non sono ancora finiti (manca un documento video di inestimabile valore in attesa di pubblicazione), visita al museo del cinema accompagnata finalmente da qualcuno che capisce le urla isteriche davanti ad un oscar o al cappello di Marlene Dietrich. Panini con aringhe alle 10.30. Ore di sonno che si contano sulle dita di una mano. Lego. AVATAR 3D (se solo riuscissi a parlarne, meriterebbe un post tutto suo, ma magari aspetto una seconda visione). La spesa. Il bagno che ha visto cose che voi umani non potete neanche immaginare. Karaoke partiti nei luoghi più improbabili, con canzoni ancora più improbabili. Milioni di foto. Citazioni cinematografiche a pioggia. Insulti a Sandra Bullock a cascata. Meryl, ora e sempre sia lodata. Ecco, così posso metterla di nuovo nel tag, visto Beps?

Di Berlino ho parlato spesso, quindi lascerei parlare un mio vecchio articolo per non scriverne uno identico. Quello che penso su questa meravigliosa città, in fondo, non è cambiato.

Ma prima, ecco qualche foto:

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BERLIN // EINSTURZENDE NEUBAUTEN

Ci sono città che non si riesce a sentire come proprie, come “casa”, non importa da quanto tempo ci si viva. E poi ci sono quelle che, nel momento stesso in cui si esce dall’aeroporto, danno quel senso di tranquillità e familiarità tipiche solo del paese in cui si è sempre vissuto.
A me è successo questo a Berlino. Non in modo così immediato però. Ci è voluta una buona settimana di odio profondo, dovuto principalmente alle abitudini alimentari locali (quell’odore di birra e kebab in metropolitana alle 8 del mattino a cui successivamente ti affezioni e senti anche quando sei a Milano), per far scattare, improvviso come la nevicata di quel giorno, l’amore.
Quando pensi di averla capita, Berlino cambia e ti rendi conto che quello che hai visto finora è solo una piccolissima parte.
E il resto… Il resto è completamente diverso.

La mia prima visita, nel 2001 in stage linguistico, fu principalmente divisa tra Friedrichshain, Lichtenberg e Mitte, con rare escursioni ad ovest, causa giovane età e terrore di esplorare qualcosa di così grande e strano come era in effetti per noi quella città. Dunque restammo più o meno dove erano le case delle nostre famiglie e nella zona della scuola. Diciamo che vidi poco.
Certo, ci portarono a Potsdam e al campo di concentramento di Sachsehnhausen, ma di tutte le visite alla città quella fu la più inutile perché come spesso succede nelle gite scolastiche, fai affidamento sul fatto che chi ti accompagna ne sappia più di te, cosa che puntualmente viene smentita dalla realtà del nulla con cui poi torni a casa.

Ma Berlino fortunatamente non ha bisogno di qualcuno che te la mostri, perché si mostra da sè.
Andando dalla scuola che frequentavamo alla mensa, ad esempio, passammo per due settimane davanti alla casa di Bertold Brecht in Chausseestrasse e al Dorotheenstädtischer Friedhof, dove sono sepolti Heinrich Mann, Hegel e Schinkel, tra gli altri, benché all’epoca fossi troppo giovane per rendermi conto dell’importanza storica di quei luoghi.

Da quella volta tornai a Berlino con più consapevolezza, e sempre più frequentemente. Vidi cambiare Berlino con ogni visita. Palazzi che prima non c’erano si ergevano alti e palazzi che invece mi ero abituata a vedere sparivano. Continua evoluzione, ma anche un onnipresente legame con ciò che è stata la sua storia. Ecco cos’è Berlino.
Dunque ti può capitare di essere in Potsdamer Platz, la parte più architettonicamente innovativa della nuova Berlino, abbassare lo sguardo e trovare a terra il muro, il suo segno, quello di dove passava. E quegli enormi grattacieli, o la cupola multicolore, spariscono e intorno a te si fa silenzio mentre immagini come doveva essere, anche solo dieci anni fa. Strade deserte, binari del tram che finivano contro il muro, intorno il nulla.
Oppure puoi passeggiare e renderti conto che proprio lì, dove stai camminando con in mano il tuo Starbucks bollente, sorgevano le sedi di SS e Gestapo, luoghi dove sono stati ideati e diretti alcuni dei peggiori crimini della storia.
Poi svolti l’angolo e tutto passa, anche se una certa aria nostalgica è difficile da ignorare almeno finché si è, nonostante tutto, turisti. Come resistere davanti al museo della DDR, entrare nella Trabant e tentare di metterla in moto, aprire gli sportelli e trovarci i pisellini Globus e i cetriolini Spreewald!?
Come è evidente, credo di essermi affezionata più alla parte est che a quella ovest di Berlino. Certo, una visita all’ultimo piano del KaDeWe è quasi d’obbligo, come anche la visione notturna della Gedächtniskirche, uno dei pochissimi edifici lasciati esattamente come erano dopo i bombardamenti della Seconda guerra mondiale, che toglie letteralmente il fiato.

Per quanto riguarda la vita sociale e artistica, Berlino è certamente il sogno di chiunque abbia un minimo di creatività. Uno dei luoghi che preferisco in tal senso è il Tacheles, centro socio-culturale tra i più noti a Berlino, 4 piani di musica, teatro, cinema, atelier e spazi per creare la propria arte, dove frequentemente si possono trovare artisti, tedeschi e non, in piena attività.
Un edificio abbandonato e poi occupato, un po’ come i nostri centri sociali. Solo un po’ più focalizzato sull’arte, sullo spirito creativo e sull’aggregazione che sull’aspetto politico/musicale e di costante lamentela sociale passiva che invece contraddistingue i nostri centri sociali.
Sarà che ho sempre impressione che in Italia la parola arte metta una paura tremenda, ma a Berlino senti e respiri una libertà di creare che non mi è mai capitato di percepire altrove.

Dalla mia ultima volta in città sono passati dieci mesi, e alla prossima ne mancano due.
Sarà la prima volta senza il Palast Der Republic, ora demolito, e nel frattempo Tempelhof (l’aeroporto del ponte aereo, dove ho avuto la fortuna di atterrare e decollare anni fa) è stato chiuso davvero.
Ma sono certa che anche questa volta troverò qualcosa di nuovo, inaspettato.

On the cover of a Magazine

Visto che l’essere fan di Madonna prevede una buona dose di incoerenza, e visto che ieri l’ho maledetta, mi pare giusto dedicare un post al servizio più bello da una… decina forse di anni a questa parte.

Grazie a Vanity Fair Italia (ma anche no, visto che sono abbonata e mi arriva un numero si e uno no)