Mal d’America.

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Ho il mal d’America.

Ho sempre sentito parlare del mal d’Africa, ma del mal d’America mai.

E intendo America del Nord, Stati Uniti, lo dico per i puristi che “l’America è tutto il continente”. Lo so, ma dire “Ho il mal d’America del Nord” non è proprio la stessa cosa, non credete?

Io ce l’ho, ne sono certa. Credo di avere tutti i sintomi, se esistono.

Tipo inziare ora, nel mese di dicembre, a pianificare il viaggio successivo.
Tipo iniziare conversazioni random con la frase “Eh.. ma in America” e continuandole come le nonne ovvero “il latte costa meno.. la benzina costa meno… gli alberghi costano meno… il cibo costa meno….”

In America scopri che quella degli italiani ospitali è una menzogna. Loro sono sinceramente gentili. Se sei fermo come un pirla in mezzo alla strada fissando, che so, il vapore che esce da un tombino, l’americano non ti urla contro “fora di ball” ma ti chiede se hai bisogno di indicazioni. E se ti servono, cosa che sembrerà assurda a voi stronzi che sogghignate dopo aver mandato un turista a Palestro invece che in Piazza Castello, te le da giuste, a costo di accompagnarti a piedi.

Le cassiere iniziano le conversazioni con “salve, tutto bene?”, non con un grugnito seguito da “ce l’ha la fidaty?”. In America.
Certo hanno anche i serial killer in America ma si sa, in quel caso è colpa della madre che gli ha dato poco affetto da piccoli.. probabilmente perchè faceva la cassiera e lo dava tutto ai clienti.

In America in mezzo al deserto c’è un posto che consuma più elettricità della Lombardia, e in questo posto c’è una piccola Ny, Venezia, e c’è la Tour Eiffel. Ci sono la Piramide e la Sfinge. Perchè? Perchè non sono mica come noi che perdiamo interi stipendi in luridi bar di periferia, loro se devono diventare poveri almeno hanno bisogno dell’illusione di averlo fatto divertendosi. Possibilmente sposando totalmente ubriachi degli sconosciuti.

Sono obesi, ok, ma vuoi mettere la soddisfazione di non dover leggere tutte le mattine:  “La colazione ideale: 4 tarallucci, un bicchiere di latte e un frutto” sulla confezione dei biscotti? Lì ci sarà scritto un enorme “STI CAZZI, LIFE’S TOO SHORT NOT TO EAT BACON”.

Mi mancano tante cose degli USA, alcune veramente stupide come i supermercati che sono luna park se visti con i nostri occhi, altre così personali che a descriverle si fa una gran fatica.

Cosa si provi, ad esempio, quando si parte una mattina dalla sabbia del deserto e si riapre la portiera della macchina all’Inspiration Point a Bryce Canyon, a 2.500 metri.

O a sedersi sul bordo di uno dei punti di osservazione del Grand Canyon nella totale incapacità di pronunciare parole con un senso compiuto perchè tutto è troppo grande, troppo profondo, troppo libero. Arrivare fino a Desert View in una giornata dal cielo limpido con lo sguardo che si perde per chilometri verso l’orizzonte e quando si abbassa incontra il fiume Colorado che sembra così piccolo che ci si ferma a pensare: wow, certo che hai fatto proprio un bel casino. Sedersi su una panchina ad ascoltare il ranger aspettando il tramonto.

Schivare un serpente a sonagli, passeggiare con un cervo.

Ricoprirsi di sabbia rossa nella Monument Valley e scoprirsi esperti guidatori 4×4 perchè il pulmino scoperto fa troppo turista, pregando poi ad ogni buca che all’autonoleggio non ci facciano pagare i danni.

Il calore mai sentito della Valle della Morte a qualsiasi ora, quel brivido di terrore che ti percorre il corpo quando ti allontani dalla macchina e tra i 50 gradi e il vento pensi che non ce la farai a tornare. I 4 litri d’acqua bevuti in poche ore, nelle quali non hai incontrato nessuno, se no il più totale e assoluto e meraviglioso nulla. Zabriskie Point al tramonto. Il pensiero, nella sera in cui muore Neil Armstrong, che in un posto più vicino alla luna non potresti essere.

Guidare nel west.

Può sembrare una di quelle cose ingigantite dal mito, che poi che differenza potrà mai esserci, guidare è sempre guidare, a Cormano come a Kingman.
No.

Dai, che uno poi arriva lì e le strade sono tutte uguali in fondo, sai che palle.
Oh no.

Certo uno deve crescere con quel mito della polvere e delle strade senza tempo che gli scorre nelle vene al posto del sangue per capire la necessità di prendere un aereo e dopo una media di 15 ore di volo fuggire a gambe levate dalla civiltà per finire nel nulla più assoluto, non è una cosa apprezzabile da tutti.

Ma per chi da questa malattia chiamata on the road è irrimediabilmente affetto, non c’è niente di più lontano dalla verità.

Nel west puoi guidare per 6 ore consecutive senza rendertene conto, ringraziando quelle che ti aspettavi essere delle noiosissime strade che continuano dritte per l’eternità, perchè grazie a loro puoi guardarti intorno con gridolini di meraviglia e fotografarle ad ogni microcambiamento senza rischiare di sfracellarti contro qualcosa. E’ l’unico posto in cui non parlare, in macchina, è a volte inevitabile. E’ il posto in cui quando partono Sweet Home Alabama e Take Me Home, Country Roads ci credi davvero, anche se sei in Arizona, nonostante il titolo della prima e nonostante la seconda dica “Almost heaven, west virginia, Blue ridge mountains, shenandoah river . Life is old there, older than the trees. Younger than the mountains, blowing like a breeze”. Insomma, la seconda parte va bene lo stesso, la prima è un dettaglio.

E’ difficile imbattersi contro alcunchè, in verità, ma il west è quel posto in cui il cielo prende vita e diventa qualcosa che fisseresti per sempre, non ti fa sentire nostalgia dell’umanità e ti permette di distaccarti dalla necessità della compagnia del cemento.

Il cielo. E’ enorme, sembra non finire mai, tanto che a guardarlo da sinistra a destra a volte se sei particolarmente fortunato capita di vederci 3 tipi di climi diversi: sole, pioggia, arcobaleno. Abbraccia la terra in un punto talmente lontano che è impossibile metterlo a fuoco.

Lo spazio. C’è tanto spazio nel west. C’è talmente tanto spazio che guidando abbastanza a lungo puoi tranquillamente girare un film nella tua testa mettendoci dentro qualsiasi cosa senza che questa venga intralciata dalla realtà. Il west è quel posto in cui puoi inventarti di tutto, e dimenticarti la tua vita.

Il tempo. Potrebbe essere il 1800, come il 2001. Guardando bene dietro una roccia potrebbe essere nascosto un indiano, ma dietro la collina ecco comparire un pannello solare. Non credo capiti molto spesso ai vecchietti nel west di dire “ah mi ricordo quando ero bambino e qui c’erano solo campi e nient’altro”, perchè lì è tutto come quando erano bambini. Spesso non sono cambiati neanche i diners che della loro immutata rozzezza vanno orgogliosi. Est. 1870 strillano le insegne ed è lì che il malato di America si fionda per un caffè, un pasto, una sosta.

Apre quelle porte sudice e malandate e trova quel classico pezzo country che suona al jukebox, proprio come ha sempre sognato, i divanetti di pelle uno di fronte all’altro e la cameriera incazzata che ti riempie la tazza, che essa sia piena oppure no poco importa.

Un approdo sicuro nell’immensità del deserto, ecco cosa sono i diners. Posti in cui puoi trovare la familiarità e il calore che quando tutto è così grande ti fanno una strana impressione, perchè sono cose che ti aspetteresti da quella provincia italiana fatta di case appoggiate l’una all’altra e parenti e chiacchiere, non in un luogo in cui il vicino più vicino dista un paio di km.

La polvere. Non mi è mai capitato di essere così contenta di essere sporca alla fine di una giornata, di sedermi per terra, salire su pietre dune sabbia con tanta disinvoltura, e contare i lividi con in bocca il sapore della vittoria. In America, succede. Succede ad esempio di camminare, scalare, scendere e salire più di quanto non si abbia fatto negli ultimi 5 anni messi insieme, perchè niente come l’America ti fa dire “ma sì, andiamo ancora un po’ più la”.

Poi questo “la” è talmente grande che ci si deve arrendere, purtroppo, almeno finchè saranno solo vacanze. Ma anche lì, l’America premia la tua fatica e sa salutarti a dovere.
Da un lato o dall’altro alla fine c’è sempre l’oceano ad attenderti per coccolarti prima di ripartire con le sue spiagge immense (e libere..), la gente sempre in costume, gli skateboard, il surf, le torrette dei bagnini. E’ sempre meglio passarlo lì l’ultimo tramonto americano, o almeno.. a me piace così.

On The Road // USA 2010 // Part 2


There is a pleasure in the pathless woods,
There is a rapture on the lonely shore,
There is society, where none intrudes,
By the deep sea, and music in its roar:
I love not man the less, but Nature more.


Lungo il tragitto verso Los Angeles si passa dal mio clima preferito di tutto il viaggio (Williams – roba da passarci interi mesi, tipo da giugno a settembre, come spiego all’anziano barbuto che al mercatino ci ha venduto le targhe e che mi racconta degli splendidi quanto rigidi inverni del Grand Canyon) al phon puntato contro la faccia, nel deserto.

Scendere dalla macchina è una tortura e sembra quasi di sentire ridere le anime dei gironi Danteschi. Come faccia la gente ad abitare in questi posti è una domanda che mi sono posta più volte vedendo case posizionate in mezzo al nulla con zero ombra e tetti di lamiera e alla quale prima o poi dovrò dare una risposta. Nel frattempo però ad un abitante che mi chiede “hot, uh?” posso solo rispondere “crischtodiddiosimuore”, testualmente.

Il suddetto caldo però non mi ferma però dal fare uscire Beps dall’autostrada una volta avvistato l’ennesimo cartello “Historic Route 66”. Dal benzinaio non sappiamo a chi chiedere però, temendo sia una domanda idiota (e in effetti lo è), così sento parlare italiano e mi avvicino a due motociclisti che inizialmente sembrano espertissimi ma che in realtà non sanno un cazzo o molto più probabilmente si sono beccati un’insolazione a girare nudi in moto per il deserto, quindi li saluto e decidiamo di chiedere al commesso nonostante la possibile figuraccia e viene fuori che sulla Route c’eravamo praticamente sopra quindi prendiamo la nostra Giallina e ci avventuriamo sull’asfalto più raccontato del mondo.

E’ piccola, se paragonata alle strade che abbiamo percorso fino ad ora, probabilmente per preservarne l’atmosfera di monumento nazionale non viene più sistemata ed è assolutamente deserta e questo ci da modo di sederci in mezzo alla strada nonostante l’ustione garantita per fotografarla e soprattutto fotografarci sul suolo sacro per ogni seguace del beat. Inutile dire che le visioni di folle di personaggi, autostop e polvere si susseguono e che l’emozione è fortissima, ancora una volta.. ma la soddisfazione per aver realizzato un altro sogno nella mia personalissima lista dei sogni è ancora più grande.

L’arrivo a Los Angeles, dopo tutto questo e dopo il Grand Canyon e quella splendida oasi che è Williams è quanto mai traumatico, un brusco ritorno alla civiltà che mi lascia interdetta e infastidita e che faccio piuttosto fatica ad accettare per qualche ora. Fortunatamente arriviamo giusto in tempo per cenare e fare poco altre e la notte provvederà a cancellare questa sensazione ma non posso evitare che il mio pensiero corra subito a Christopher McCandless, per l’ennesima volta durante questo viaggio.

Mi riferisco ovviamente al McCandless cinematografico e in particolare alla scena di Into The Wild in cui anche lui si ritrova a Los Angeles dopo aver girato zone sperdute degli Usa e resta spiazzato dal rumore, dal cemento e dall’indifferenza e scappa via.

La tentazione di seguire i suoi passi e fare altrettanto è stata forte devo ammettere, ma c’è qualcosa di ancora più forte a trattenerci: il giorno dopo ci attendono le visite agli Studios.

Dobbiamo rinunciare alla Paramount, che vediamo solo da fuori, perchè non effettuano tour di sabato e noi abbiamo solo quel giorno a disposizione, ma abbiamo già i biglietti per il Vip Tour della Warner Bros ed è lì che ci dirigiamo di buon’ora. Dove ci dirigeremmo, sarebbe meglio dire, se il navigatore decidesse di collaborare ma non è così, quindi ci ritroviamo per la prima volta traditi da Mr Tom Tom a girare per due ore da un’indirizzo all’altro ma dall’altra parte della città rispetto a dove dovremmo essere. Una volta arrivati a destinazione quasi un’ora dopo l’inizio, almeno teorico, del nostro tour ci avviciniamo mestamente al banco con la certezza di aver ormai perso i soldi dei biglietti e invece scopriamo che la fortuna incredibilmente ci assiste ancora!

Non vedendoci arrivare infatti, ci hanno spostato in uno dei tour successivi senza alcun problema e ad aggiungere soddisfazione a soddisfazione riceviamo anche i complimenti per la splendida tshirt “Fiori D’Acciaio” indossata da Beps. Ci resta poco più di una mezz’ora dunque, durante la quale giriamo per lo store decidendo già quali acquisti fare alla fine del tour, e credetemi.. in mezzo a quel ben di Dio avremmo comprato di tutto.

Circa un quarto d’ora prima dell’inizio veniamo portati in una piccola sala proiezione dove viene trasmesso un filmato che contiene la storia della Warner e in particolare un montaggio di tutto ciò che hanno prodotto. Poi ci viene presentata la nostra guida, Asia, e veniamo portati fuori per le raccomandazioni e per accomodarci sul cart che ci avrebbe trasportato in giro per gli Studios. La prima e più importante delle raccomandazioni è che le macchine fotografiche e i nostri effetti personali saranno chiusi a chiave per la prima parte del tour, e scopriamo subito perchè. Dopo un breve tragitto infatti veniamo portati al museo della Warner Brothers, dove sono conservati i più famosi costumi utilizzati nei loro film, come ad esempio il Cavaliere Oscuro, Charlie and The Chocolate Factory, Million Dollar Baby e Gran Torino, come anche alcuni dei costumi utilizzati dai più grandi attori della storia di Hollywood come Bette Davis, John Wayne, Marlon Brando e James Dean. Il tempo è poco quindi ci viene consigliato, se siamo fan di Harry Potter, di dare un’occhiata prima al piano di sopra che è interamente dedicato alla saga.

Per quanto io sia fan però, passo con Beps la maggior parte dei 25 minuti concessi al piano terra, a cercare di scorgere  tracce di vita nei costumi che tante volte abbiamo visto sullo schermo, lanciando gridolini estasiati come se non si trattasse solo di vestiti ma di segni inequivocabili che non stiamo sognando.

La gita al piano di sopra però devo ammettere che è stata piuttosto divertente. Qualsiasi cosa vi possa venire in mente di uno dei film di Harry Potter, era lì. Dal cartello di Private Drive, agli occhiali di Harry e Silente, ai costumi di tutti gli attori, i tiri vispi Weasley, Aragog, i Dementors, il sottoscala e le lettere del primo anno, la mappa del malandrino e il cappello parlante! Decidiamo che alla giornata manca ancora un adeguato livello di spaiassate quindi ci sediamo sullo sgabello e facciamo scegliere al cappello la casa alla quale saremo assegnati: Tassorosso per Beps e…… Serpeverde per me. Che delusione!

I 25 minuti come previsto finiscono in fretta, e il tour riparte con la liberazione delle nostre macchine fotografiche.. mai così utili perchè scatto foto praticamente a qualsiasi cosa mi capiti davanti agli occhi. Subito ci ritroviamo a New York, e due minuti dopo a Chicago, davanti alla metropolitana utilizzata in ER, per fermarci poi appena raggiunto il midwest. E’ la parte più curiosa perchè a detta anche dei “nativi” è praticamente identica ad una qualsiasi cittadina, e le case che vi sono disseminate sono infatti state protagoniste di molti dei telefilm prodotti dalla Warner.  In questo momento è utilizzato quasi interamente per le riprese di Pretty Little Liars, come ci racconta Asia, insieme ad un milione di altre cose interessantissime portandoci in giro per una visita a piedi di qualcuna delle case utilizzate, scopriamo poi, anche in numerosi film come qualsiasi cosa si trovi su quel suolo.

Risaliamo sul nostro cart e diamo un’occhiata ai numerosi set a cui passiamo accanto, con Asia che spiega quali film e quali serie sono state girate al loro interno. In uno di questi viene girato l’Ellen Degeneres Show e ci viene concesso di vederlo sul serio, già pronto per la nuova stagione che sta per iniziare, con il gatto “di casa” che ci segue in cerca di attenzioni. Curiosissima la storia dei gatti degli Studios, a quanto pare pretesi da James Cagney che li volle per sterminare i ratti che avevano invaso il suo camerino e che da allora sono rimasti lì.

Facciamo una sosta al reparto dove i decoratori dei set scelgono i mobili e gli accessori delle case (dove invito Beps a trafugare due delle tags con le quali vengono “prenotati” i mobili) poi in una specie di museo delle auto dove troviamo il Generale Lee e la macchina, davvero incredibile, del Cavaliere Oscuro, insieme alla mitica Gran Torino, e per finire sorpresona per tutti i fan di Friends (non sono una di loro quindi la mia emozione era un pò attutita): il Central Perk! Effettivamente era suggestivo in quanto era tutto esattamente come uno se lo ricorda, con tanto di Ferrero Rocher d’epoca e menu scritto sulla lavagnetta.

Facciamo una foto sul green screen che verrà poi sostituito da uno dei set di Harry Potter (da buoni paiass ci posizioniamo con le bacchette in mano come se stessimo duellando) e dopo una visita alla foresta Warner dove troviamo i set di True Blood, Million Dollar Baby e della scena dell’inseguimento del T Rex di Jurassic Park,  il tour finisce.

Per una semplice questione di bagaglio ci tratteniamo dal comprare almeno 16 tazze differenti e ci limitiamo ad acquistarne un totale di 4, più magliette e portachiavi in abbondanza, e ci dirigiamo verso gli studi Paramount, la prossima tappa.

Come accennato prima purtroppo non effettuano tour di sabato quindi ci limitiamo a scattare foto e ad immaginare Gloria Swanson sulla sua graziosa automobile che arrivata al gabbiotto del custode chiede del sig. DeMille.

La batteria della mia macchina fotografica spossata dall’intensa mattinata muore,  il che ci costringe a fare una pausa pranzo incredibilmente all’ora di pranzo o quasi mentre si ricarica e poi ripartiamo: Universal Studios here we come! Non trovarli è semplicemente impossibile trattandosi quasi di una città, Universal City appunto, ed è un posto davvero pazzesco.

Consuma più luce di una qualsiasi piccola cittadina italiana, e ha una percentuale imbarazzante di cibo per metro quadro, qualcosa di difficilmente immaginabile. E non solo, negozi di qualsiasi genere e tipo e ovviamente di souvenir e gadget cinematografici… tutto questo ancora prima di arrivare all’Universal!

Che, scopriamo, è una specie di Gardaland del cinema con attrazioni, giochi e divertimenti. Ci precipitiamo immediatamente verso la fila dello Studio Tour si rivela una decisione saggia dal momento che durerà circa un’ora e mezza e sarà la fila più lunga, in lunghezza, che io abbia mai fatto. Fortunatamente si cammina durante quasi tutto il tragitto quindi non ci si fa caso, soprattutto perchè si è accompagnati da foto e filmati di film che fanno passare il tempo più velocemente.

Chiariamo subito che è l’opposto, totalmente, rispetto al Vip Tour della Warner, a cominciare dal nome. Qui di vip non c’è nulla, il trenino trasporta insieme a noi non 10 persone ma almeno 200, se non di più. E va molto, molto più in fretta. Ma per come è strutturato il divertimento è assicurato e di cose mi fanno cadere la mandibola più volte durante il tragitto ce ne sono parecchie.

Vediamo qualche stage, qualche strada di NY di sfuggita e poi subito il primo colpo: siamo nella piazza di Hill Valley, in Ritorno al Futuro!

La guida è fantastica, sono pronta a scommettere diventerà famosa in qualche modo perchè per tutto il percorso non fa altro, tra una spiegazione tecnica e l’altra, che farci ribaltare in continuazione. Con una profusione di battute e soprattutto l’imitazione di Keira Knightley, un vero spettacolo.

Ma torniarmo al tour: uno dopo l’altro si susseguono New York, Parigi, Roma, il vecchio west e il Messico, dove abbiamo un assaggio degli effetti speciali che simulano pioggia e inondazioni (ho già menzionato che sono dal lato sbagliato del pulmino?), poi le varie auto (e dove appena avvistata la Delorian per poco non cado fuori), esibizione di effetti speciali e finalmente lui: King Kong. Il 3d 360° indescrivibile, e lo dimostra il fatto che ho rischiato seriamente di commuovermi per l’emozione. Peccato sia durato poco perchè io un’altra decina di minuti l’avrei gradita, ma posso capire che organizzare una cosa del genere che dura più tempo implicherebbe di utilizzarlo come attrazione a se stante che evidentemente non era negli scopi della Universal.

Indossiamo i nostri occhialini 3d e subito veniamo circondati dalla foresta e da un TRex minaccioso che con il muso sposta il pulmino che.. ragazzi miei, si muove. Balzi, strattoni, schizzi d’acqua, ed ecco che interviene Kong, salvandoci da morte certa proprio mentre stiamo per precipitare nel vuoto. E la sensazione di vuoto è spettacolare, non so come abbiano fatto a ricrearla fatto sta che mentre si precipita tra una liana e l’altra gli “oh cazzo oh cazzo” piovono a secchiate.

Il tour però prosegue, e cominciano i vari set: Jurassic Park, Grinch, Psycho, Jaws e La Guerra dei Mondi, per arrivare infine a quello che, come per Friends, temo di essere l’unica a bordo ad apprezzare davvero poco: Wisteria Lane. E’ il più realistico anche perchè lo stanno utilizzando in questo momento, con tanto di luci accese e macchine parcheggiate nei vialetti, ed è bellissimo. Se solo  la trama avesse su di me anche solo una minima attrattiva, un set così mi avrebbe certamente spinta a vederne almeno qualche puntata.

Prima che il tour si concluda faccio ancora in tempo a farmi nominare dalla simpatica guida “Passeggera del giorno” per aver lanciato un urlo disumano alla vista dei due leoni “Lyon Estates”, sempre di Back to The Future, e poi quasi senza rendercene conto, ci troviamo di nuovo ai piedi della Whoopy che indicava l’ingresso.

Tirando le somme, il tour della Warner è senza dubbio più intimo, più tecnico e più informativo e da proprio la sensazione di essere NEL cinema. Quello dell’Universal invece è strutturato più come un’attrazione, molto divertente senza dubbio ma mi sono sentita più come a Gardaland che su un set cinematografico. Che è un’ottima cosa, per carità, è stato davvero divertente ed emozionante ma se dovessi esprimere una preferenza tra i due sceglierei sicuramente Warner Brothers.

Prima di uscire però notiamo gruppi di persone che escono da una porta sbellicandosi o gridando e decidiamo di dare un’occhiata. E’ la casa degli orrori Universal, simile a quella di Gardaland per intenderci ma con tutti i personaggi dei film horror da loro prodotti. Decidiamo di entrare ovviamente e credo di non aver mai riso tanto in vita mia come in quei 10 minuti. In teoria non era esattamente quello lo scopo, mi sarei dovuta spaventare e inizialmente è così, poi però veniamo raggiunti da un’enorme afroamericana e da un gruppo di cinesi che hanno reazioni così assurde a qualsiasi cosa che passo tutto il restante tempo appoggiata alle pareti in preda a convulsioni: l’apice viene toccato quando la suddetta enorme e simpaticissima ragazza corre verso di noi in punta di piedi urlando come una pazza..poco dopo siamo nella stanza di Chucky che in assoluto è una delle cose che mi hanno sempre terrorizzata di più specie da piccola ma questa volta non fa effetto, le risate sono troppo forti.

Resta il tempo di fare incetta di peluches di ET e regali vari, e poi con un freddo ormai autunnale ci precipitiamo in macchina. Una mezz’oretta dopo siamo in albergo, e anche questa delirante giornata è finita. E delirante è l’unica parola che mi viene in questo momento, perchè ce ne sono poche che renderebbero meglio l’idea.

Vedere quelle cose con i propri occhi, passare un’intera giornata nel nostro ambiente naturale ed emozionarsi alla vista di un camion del catering non è cosa da tutti, nè soprattutto è cosa da tutti i giorni. Abbiamo avuto un assaggio, certo, ma uno di quegli assaggi che ti lasciano con l’acquolina in bocca e la sensazione che è proprio così, che è quello il luogo “where it all happens”, e dove speriamo di poter portare, someday, le nostre tazze “Writer” e “Director”.

Vado a letto con il sorriso sulle labbra, certa di avere aggiunto a questo viaggio un tassello fondamentale quanto indimenticabile.

Il giorno dopo siamo ancora frastornati ma si continua con i sogni e le stelle: una decina di minuti dopo aver lasciato l’hotel siamo all’inizio della walk of fame. L’inizio sbagliato, scopriamo dopo, e il mio entusiasmo lascia presto il posto ad un passo accelerato e veloci sguardi sotto ai miei piedi. Già perchè queste belle stelline, date un pò a chiunque e questo contribuisce non poco a far affievolire l’emozione iniziale, vanno avanti per chilometri e la nostra prossima tappa è proprio alla fine di questa lunga galassia.

Quando arriviamo al Kodak Theatre sono così devastata che per poco non rinuncio alla visita guidata ma per fortuna Beps riesce a convincermi. Visita guidata che effettivamente è un pò un furto, 15 dollari per vederne la hall, il bar e l’interno ora ricoperto di cellophane mi sembrano un pò troppi ma devo ammettere che è comunque abbastanza figo camminare in quelle stanze e avere una visuale inedita della sala dove si celebra l’evento più atteso dell’anno!

Terminata la visita andiamo in pellegrinaggio, come doveroso, al Chinese Theatre, vedendo di sfuggita anche l’Hotel Roosevelt sede dei primi Oscar. Rischiamo un’insolazione ma non rinunciamo alle foto paiass  sulle impronte di Marilyn, Gloria Swanson, Meryl e Bette Davis e troviamo anche il tempo di deridere la Loren che a quanto pare non solo non conosce la lingua inglese ma neanche l’italiano visto che ha scritto sul cemento un enigmatico “solo per sempre” che tutt’ora ci chiediamo quale significato possa avere.

Visto il caldo torrido di quella giornata decidiamo di scappare letteralmente verso la spiaggia e tra le varie opzioni all fine optiamo per Venice. Per nessuna vera ragione se non che lì dovrebbe trovarsi Muscle Beach, e benchè alla fine non siamo riusciti a trovare gli omaccioni che sollevano pesi all’aria aperta si è rivelata un’ottima scelta.

E’ tutto come l’abbiamo sempre visto in tv: i ragazzi di colore perfetti che giocano a basket, i bianchi sullo skate, i surfisti, gente che gira in costume in bici e donne insospettabili vestite da impiegate che tornano a casa in skateboard e… le torrette!

Chiunque sia cresciuto tra gli anni 80 e i 90 non può non avere impresso a fuoco nella mente questo aspetto delle spiagge losangeline: le torrette, i bagnini, e le macchinone gialle.

Le torrette ora sono colorate, e purtroppo non ho visto in giro nessuna Pamela Anderson ma il fascino dei bagnini è intatto, con la loro giacchetta rossa e salvagente sempre in mano.  Per un attimo, faccio schifo lo so, ho anche sperato che qualcuno andasse troppo al largo per vederne correre uno, salvagente a tracolla e bracciate da 10 metri l’una.

Non sono una grande amante del mare, ma qui fa freddo e passare un pò di tempo in spiaggia non mi dispiace. Vestita, naturalmente, con cappellino e zaino: se non avessi i piedi nudi potrei tranquillamente essere un escursionista di montagna al contrario di Beps che tira fuori tutto il coraggio che possiede e resta prima senza maglia e per qualche minuto addirittura con uno splendido costumino rosso fuoco.

Alle 19 circa con ormai visioni di calamari fritti e hamburger riusciamo finalmente a convincerci che è ora  di.. pranzare, dopodichè un pò a malincuore lasciamo Venice perchè prima di tornare in albergo per la nostra ultima notte a Los Angeles ci resta ancora una tappa: Mulholland Drive.

Spiegare l’emozione per una strada è veramente difficile e noto che mi sta capitando sempre più spesso scrivendo questo post: non riuscire a dare una spiegazione ai propri sogni ogni tanto è frustrante. Va da se che la venerazione per David Lynch e per quello che è uno dei suoi capolavori è la motivazione principale  del brivido che corre lungo la schiena quando ne vediamo il primo cartello e il buio ci sommerge completamente.

Già, perchè volutamente a Mulholland Drive decidiamo di andarci proprio di sera e che sia stata una grandissima idea lo scopriamo appena il buio ci inghiotte. Mulholland Drive è una strada piuttosto lunga, ad una corsia per senso di marcia e senza un guardrail che sia uno. La maggior parte della strada è a strapiombo sul nulla e i lampioni scarseggiano quindi è abbastanza terrificante già di suo,  ma il panorama che si può godere di Los Angeles soprattutto di notte è semplicemente spettacolare. Purtroppo senza cavalletto e con la batteria della videocamera scarica non abbiamo nessun ricordo di quella visione ma non credo la dimenticherò molto facilmente. In ogni caso prima di tornare in albergo percorriamo la strada ancora un paio di volte, sia perchè starci sopra dà una strana, bellissima sensazione, sia perchè siamo alla ricerca di un cartello situato in posizione fotografabile senza farci investire o precipitare nel vuoto.

La mattina successiva ci rimettiamo in viaggio, dopo una sosta dalla nostra spacciatrice cinese di muffin e croissants, questa volta in direzione di San Francisco. Il viaggio, insieme a quello del ritorno è il viaggio più noioso, niente da guardare in tutto il tragitto se non le ribattezzate montagne kiwi, ovvero montagnette ricoperte di quelli che sembrano peli gialli, distese di mucche seguite da distese di vigneti o campi con dentro messicani a raccoglierne i frutti. Il tragitto che avrebbe regalato meraviglie in abbondanza è quello della costa,  ma ci sarebbe servito un giorno in più che sfortunatamente in questo viaggio non abbiamo.

Impovvisamente ci troviamo davanti una serie di nuvole basse e pesantissime, che prendono il posto del cielo azzurro che avevamo sulla testa fino a pochi chilometri prima e sotto di loro il cartello San Francisco.  E’ proprio così, non è una leggenda metropolitana, il clima a San Francisco è il clima di San Francisco ed è un clima diverso rispetto a tutto il resto della California.

Entrando in città infatti, con i nostri pantaloni corti e t shirt, iniziamo a scorgere giacche a vento, ponchos di lana e in qualche caso persino sciarpe. Il palazzo dietro al nostro hotel è parzialmente coperto da una coltre di nebbia e il vento è pungente. Prima del meritato riposo decidiamo di accontentarci di una rapida cena in una pizzeria italoamericanamessicana poco distante perchè la stanchezza del viaggio non può certo combattere con le pendenze incredibili delle strade di San Francisco, e il nostro hotel si trova in una conca circondata da salite vertiginose.

Per la prima giornata decidiamo di concederci un vizio da turisti, ovvero la visita guidata della città su un tram elettrico.  Scegliamo quello sbagliato, va detto, perchè ce n’era uno che si chiamava “Ride the Duck” che ti portava in giro su un pullman a forma di barca (e che infatti poteva entrare in acqua) ma soprattutto ti dotava di simpatici becchi di papera in cui soffiare per importunare i passanti durante il tragitto.

Il nostro tour però è ricchissimo, dura due ore e vediamo cose che probabilmente non avremmo visto durante la nostra permanenza, ovvero tutti i quartieri principali, il Golden Gate da una visuale abbastanza particolare (per farsi perdonare la partenza ritardata del giro) e poi dal classico punto turistico ovvero Vista Point. La guida è un anziano signore nato e cresciuto a San Francisco, e arricchisce la visita di informazioni sulla storia della città e aneddoti della sua infanzia. Quando alla fine torniamo a Fisherman’s Wharf (zona bellissima quanto turistica del porto) ci consiglia un ristorante di pesce dove ci fiondiamo visto che ancora una volta abbiamo quasi tirato le 16. Mangiamo benissimo, fritto misto per cominciare e poi “Francesco’s Misto” ovvero la loro versione delle nostre linguine allo scoglio, al sugo… buonissimo come la quantità industriale di pesce che ci troviamo nel piatto ma che purtroppo visto l’aglio che conteneva ci si riproporrà per svariate ore.

Fisherman’s Wharf non è uno dei luoghi più consigliati dopo aver mangiato in abbondanza e se si ha la nausea facile, infatti sia io che Beps diventiamo verdi in due nanosecondi appena passiamo accanto alle varie bancarelle dove vengono esposti e cucinati granchi giganteschi e decidiamo di scappare per andare a dare un’occhiata alla famossissima Lombard Street, o almeno alla parte splendida e impressionante che ne fa la strada più ripida al.. mondo? – non ne sono certa, ma di sicuro di San Francisco sì.

Non la percorriamo in macchina, parcheggiamo vicino alla parte in cui iniziano i tornanti e scendiamo facendo i gradini (senza pensare al fatto che poi avremmo dovuto rifarli per risalire) per scattare qualche foto dal basso e la scalata successiva è il delirio: ovviamente il tutto viene immortalato in un video nel quale all’apice della blasfemia citiamo le fermate della Via Crucis.

Rinvigoriti da questo ENORME sforzo fisico decidiamo, prima di tornare in hotel, di fermarci prima per una breve visita a Castro, per un’assaggio di quell’oasi di orgoglio e libertà che è il regno di Harvey Milk. Ce ne innamoriamo subito ovviamente, nonostante il freddo e le nuvole che coprono il cielo, così dopo una tappa in libreria dove acquistiamo bracciali e orsacchiotti arcobaleno decidiamo di tornarci per un intero pomeriggio l’ultimo giorno.

Le strade sono….. ho finito gli aggettivi, posso ripetere pazzesche? Ma lo sono e i video esilaranti che abbiamo girato ne sono la prova: se non si è abituati è come andare sulle montagne russe e percorrerle con cambio normale anzichè con quello automatico richiederebbe skills di guida paragonabili solo a quelli di Michael Schumacher.

Il secondo giorno a San Francisco ci attende come da programma una gira fuori porta: il faro di Point Reyes.

Innanzitutto ho avuto la conferma che non soffro il mal d’auto. I ringraziamenti vanno a Beps e alla sua guida perfetta, ma con 30 chilometri di tornanti ho avuto il terrore di sparpagliare il pranzo delle 17 sul parabrezza.

Parlando di cose serie invece, mi sentirei di ricordare, nell’ordine:

  1. foche che riposano sulla battigia
  2. distese di manzi facciatosta
  3. una clamorossa puzza di merda che a momenti ci fa uscire di strada provocata dai suddetti manzi facciatosta
  4. la ricerca di un benzinaio che neanche nel deserto è durata tanto, terminata nello stesso momento dell’accensione della spia della riserva. Ora, saremo stupidi noi (probabile) ma non è che sia ancora molto chiaro quanto duri la riserva. Quindi nel dubbio, l’obbiettivo è non farla accendere. MAI.

Passando alle cose serie ma veramente serie, durante la prima sosta per chiedere informazioni circa il benzinaio, decidiamo di fare un piccolo sentiero a piedi, denominato “The Earthquake trail”. Il sentiero passa in alcune delle zone dell’epicentro del terremoto del 1906, con cartelli di spiegazioni e un recinto lasciato esattamente come allora, separato di circa 4 metri.

Terminata la scampagnata ci rimettiamo in viaggio, passiamo West Marin e proseguiamo per il faro di Point Reyes.

Scopriamo che martedì e mercoledì è chiuso e temiamo che per una volta la fortuna ci abbia abbandonati, ma in realtà è chiuso solo il centro visitatori e i gradini che portano direttamente al faro, mentre la scogliera è fortunatamente accessibile.

Ribadisco fortunatamente perchè una volta sopra ci affacciamo e scopriamo con immensa emozione che proprio lì sotto c’è un gruppo di leoni marini ma soprattutto un branco di balene che passa avanti e indietro, salendo in superficie per respirare, con quel soffio che ti fa emettere gridolini da bambino, per poi tornare sott’acqua alzando quell’enorme codona!

Incredibile, non riesco a commentare in nessun altro modo.

Mentre siamo sul faro sentiamo, quasi costantemente, i suoni delle navi di passaggio. Non le vediamo ma quel suono è bellissimo, quasi rilassante, soprattutto se sommato ai versi degli innumerevoli uccelli presenti sulla penisola e quelli dei leoni marini sotto di noi.

Dopo una sosta per il solito pranzo pomeridiano decidiamo di fare un’ultima tappa per togliere dalla lista un’altra visuale del Golden Gate, di modo di avere l’ultima giornata libera dagli impegni turistici. Un freddo sporcaccione ma anche una vista magnifica da Baker Beach, e colori, anche questa volta al tramonto, da spezzare il fiato.

Ma perchè perchè perchè camminare sulla spiaggia è così faticoso? Al termine della “passeggiata” credevo di morire.

Morta davvero era invece la povera foca impigliata in delle catene (o corde) che abbiamo incontrato sulla spiaggia, che tristezza.. una cosa che non deve capitare di rado ma che ci riporta sulla terra, quella popolata da umani e dalla quale per un pò ci siamo sentiti distanti.

L’ultimo giorno lo utilizziamo per gli acquisti finali, che come ogni volta mi riprometto di non fare prima di partire per poi cambiare idea all’ultimo minuto e scoprire, una volta terminato di distribuire le cose che ho comprato aprendo la valigia, che per me non ho preso praticamente nulla. Maledetta generosità! Sistemo la famiglia dunque, e finalmente trovo persino qualcosa per mia madre, ma prima andiamo a Twin Peaks a dare un’occhiata a quella che sulle guide descrivono come la vista più bella della città, e lo è davvero.

Facciamo tappa alla casa dove è stato girato Mrs Doubtfire e poi via, verso Castro per il nostro ultimo pomeriggio a San Francisco. Diamo un’occhiata con immensa invidia al programma del teatro omonimo e pranziamo da Harvey’s, locale bellissimo con alle pareti foto di Milk e in generale della comunità gay dell’epoca, facciamo qualche giro per altri acquisti e in men che non si dica i negozi stanno chiudendo.. è già ora di andare.

L’atmosfera del quartiere è stupenda, ti senti proprio libero, come a casa, libero ad esempio di girare con un pappagallo sulla spalla, se ti va.

Resta il tempo di produrre gli ultimi video scandalosi con gli oggetti acquistati: la mattina si parte per Los Angeles. Il panorama è sempre quello noioso dell’andata, aggravato da una coda nel bel mezzo di nulla, ma dopo sette ore eccoci puntuali in albergo, pronti a lottare contro le nostre valigie.

La mattina dopo non soddisfatti dalla quantità di video prodotti (solo 98), partiamo con un bel pò di anticipo dall’hotel per colmare le lacune paiass, dopodichè giriamo ancora un po’ con la nostra giallina nel tentativo di finire la troppa benzina fatta il giorno prima ma alla fine dobbiamo proprio andare. Ci attende un viaggio lunghissimo, reso ancora più duro e triste dalla pochissima voglia che abbiamo entrambi di tornare alla vita di tutti i giorni, e al vecchio continente che mai come in quei momenti ci era sembrato così vecchio.

Potrei fare un bilancio del viaggio, parlare di cosa mi lascerà dentro negli anni a venire e di cosa dimenticherò, ma non voglio farlo perchè sono sentimenti ed emozioni che bisogna vivere. E non intendo che bisogna viverle per capire, intendo proprio che BISOGNA provarle. DOVETE provarle. Non lasciate che le ore di volo o la paura di immensi budget vi impediscano di fare quella che sarà, sono pronta giurarvelo, una delle più intense esperienze della vostra vita.

Il resto delle foto qui: http://www.wix.com/muchadoaboutnoth1ng/Photography

Bloody Friday

Penso di essere l’unica oggi a detestare il venerdì, e ad esserne angosciata.

Eh già, perchè da lunedì finisce la malattia e bisogna tornare a lavorare. Bisogna, proprio, perchè potendo continuerei la mia favolosa routine di serie tv, quiz per la patente e delizie culinarie, in barba al lavoro che nobilita l’uomo. Io mi sento molto più nobile quando cazzeggio indiscriminatamente, invece.

Ma, e c’è sempre un ma (in questo caso un ma molto grosso), urge recuperare della pecunia dal momento che proprio ieri è stato posto il primo mattone della vacanza più agognata, ambita, sognata, e soprattutto voluta della mia vita: ovvero il volo per Los Angeles. Che è costato millemilaeuri in più del previsto visto il ritardo dovuto ai recenti accadimenti ma che siccome si vive una volta sola, e anche di merda, abbiamo deciso di acquistare comunque.

Non è il lavorare che mi spaventa, anzi, ben venga avere una distrazione anche se si tratta di usare SAP tutto il giorno… la cosa terrificante sarà dover parlare con altri esseri umani che dopo un mese di isolamento mi terrorizzano come un branco di leoni affamati soprattutto perchè vista la mia nota misantropia l’idea di dover rispondere a raffiche di domande tipo “cosa è successo” “come stai ora” mi paralizza a morte.

Ma facciamoci coraggio, e godiamoci questo ultimo giorno “libero” con una visione obbligata per svariate ragioni: la recente scomparsa del grande Hopper, in primis, poi quelle strade, quei colori…. sono il motivo per cui attraverserò l’oceano e non solo quest’estate e infine.. cosa può farti sentire più libero di viaggiare urlando BOOOOOORN TO BE WIIIIIIIILD?

Gagafied, in Paris.

Fino a qualche giorno fa sembrava pura utopia. Andare a Parigi, viaggiare, camminare, e soprattutto vedere due concerti dopo due delle settimane più terrificanti della mia vita più che un sogno a tratti mi è parso un incubo.

Già perchè che fare, rifugiarsi nella comodità del letto e del riposo pressochè totale e rinunciare a qualche soldo ma con una buona scusa…… oppure armarsi di coraggio, correre qualche rischio e coronare mesi di delirio e crescente passione andando in pellegrinaggio a Bercy?

Ci sono stati momenti di panico devo ammettere, dato che fino a mercoledì una rampa di scale era la morte, ma per quanto mi riguarda, la decisione non poteva essere che partire.

Se avessi impedito al mio fisico di permettermi di fare ciò che desidero sarei morta civilmente 4 anni fa, ma avere il padre che ho me l’ha PROIBITO. Dimentica, me lo dice sempre. E se te ne succede una peggio, dimentica anche quella e vai avanti. E così ho fatto, fortunatamente, perchè due giorni lontani dalle sicurezze domestiche, in una rilassante Parigi primaverile, due serate che se sommate accumulano più sforzo fisico che tutti gli ultimi sei mesi messi insieme, sono serviti più di qualsiasi ricostituente e ansiolitico in commercio.

Le due serate, dunque. Qui lascio parlare il mio compagno di viaggio il caro Diego, il quale oltre che supportarmi come meglio non avrebbe potuto ha scritto anche la più bella recensione di un concerto che mi sia capitato di leggere da parecchio tempo a questa parte, non avrei saputo fare di meglio e in ogni caso avrei ripetuto ogni singola parola.

Bhè cosa dire? Sinceramente: un concerto, anzi due, anzi esagero, un tour che ho amato.
Ma amato di brutto!

E non solo perché per la prima volta vedevo la Germy dal vivo, con i suoi dentini e i suoi capelli color evidenziatore. Ma proprio in assoluto, un vero spettacolo in piena regola. Dalle canzoni, agli arrangiamenti, le luci, le scene, le coreografie deliranti, i balletti, i discorsi acchiappapubblico…

Non so cosa si potrebbe obiettare, e lo dico cercando pure di limitare l’entusiasmo di questa due giorni germanotteschi in quel di Parigi.

Della serie: siete andati in Francia, cosa avete visto?
La gaga.
E poi?
La gaga.

Laughing Laughing Laughing

Quello che subito pensi non appena inizia il concerto è che la Lady ha già capito e azzeccato non dico tutto ma praticamente il 90% di quello che ha fatto. E ci sono le prove palesi. Ha già una sua gestualità, un modo di muoversi, di cantare e di esibirsi che è definibile. Lo stile gaga se vogliamo, quello che caratterizza un artista da miglia di distanza. Lo si capisce subito, da Dance in the dark, che apre lo show. Praticamente per buona metà della canzone della Stefani non vediamo che l’ombra. Dietro un telo semitrasparente, arrampicata su una scala. Illuminata da dietro, è una sagoma nera che si staglia sul pubblico. Sta quasi ferma per tutto l’inizio, inizia a cantare e al primo ritornello zac, fa un veloce movimento di bacino, si gira un po’ e tira fuori l’artiglio da little monster.
E il pubblico impazzisce, esulta, la chiama, la riconosce. Non guardandola neppure, senza aver visto come avrà i capelli o che costume assurdo potrebbe avere addosso. Solo dopo si alza il telo circolare che avvolge il palco e la vedi, gli occhiali d’ordinanza, i vestiti spaziali, le tutine e i ballerini che iniziano a dimenarsi, le scritte al neon che invadono la Gaga City e lei che con calma inizia a scendere le scale. Ti bastano 10 secondi per inquadrarla, poi inizi a cantare con lei, a saltare e a seguirla con lo sguardo.

Si mette subito a gridare e cattura il pubblico già adorante: se siete liberi, stasera qui a Parigi sarete SUPERFREEE, non importa da dove venite, cosa pensate o quanti soldi avete in tasca. Stasera potete essere qualunque cosa voi vogliate essere e fare qualsiasi cosa desideriate fare. Ci chiama petit monster, in continuazione. Dice un sacco di frasi in francese. Ci saluta e ci ringrazia incessantemente.

And the best thing about the Monster Ball is that i created it so my fans have a place to go… A place where all the freaks are outside and i lock the fucking doors. It don’t matter who you are, where you come from, or how much money you got in your pocket because tonight and every other after night you could be who ever is that you want to be…

Difficile forse trovare all’inizio una coerenza perfetta che tenga insieme il tutto, ma alla fine Gaga ci riesce (pure questa) e il quadro si completa: il Monsterball tour è una sorta di viaggio, un percorso a tappe che facciamo (noi, poerchè siamo continuamente coinvolti) in una sorta di paese degli orrori / meraviglie, una Gaga in wonderland se vogliamo, che unisce il grottesco e il delirante con una buona dose del mago di Oz. Come una Dorothy folle e iperattiva, e anche un po’ come la strega del Nord, Gaga ci fa seguire non la strada di mattoni gialli ma la glitter way che si illumina ad un suo segnale. Afferra uno scettro, una sorta di disco stick versione XL e tra le luci soffuse di Bercy lo accende come una enorme torcia, un faro, e ci illumina come ad indicare la strada. Facendoci ovviamente urlare senza freno, sottointeso.

Viene anche portata via da una tromba d’aria.

Oh, what’s that thing way up in the sky? It’s very beautiful but very strange. Is it rainbow? No. Ohh, I don’t feel so well. Little Monster .. Oh no it’s a twister!! mugugna come una bambina triste, mentre gli schermi la avvolgono e lei spunta dopo poco con addosso un vestito candido da fatina con tanto di ali, innalzandosi sul pubblico.

Uno show che dura 2 ore abbondanti, senza troppe pause, continui cambi d’abito, scenografie pazzesche e soprattutto tanta, tantissima improvvisazione. Sia musicale, al piano, dove si vede che è libera di fare quello che gli gira, pure suonare Stand by me, sia con le parole.
Lady Gaga parla tantissimo, fa mille discorsi e altrettanti ringraziamenti e il bello è che comunica anche stando in silenzio. Quando si blocca al termine di una canzone con i dentini da regina dei monster, le gengive in evidenza e la faccia corrucciata, sta in silenzio per minuti, ma tutto intorno è il boato. Quando si mette a cantare a testa in giù sulle scale, idem. Fissa il palazzetto stracolmo al contrario, con i capelli che cadono a terra, le calze scucite e una macchia di sangue sul collo, magari dicendo banalità tipo Non ho mai amato i soldi per poi aggiungere Grazie mille a voi che avete preso il biglietto per il io spettacolo stasera! , ed è nuovamente vincente.

Non ho mai sentito una cantante ringraziare così tante volte il suo pubblico, la città che la ospita, in un continuo di I love you so much Paris, today is the liberacioooon, you are the petit monsteeer, invitando a tendere un alto la manina ad artiglio. PAWS UP. Noi che eravamo in tribuna abbiamo visto alzare le unghie in alto a bambine, cinni, coppie adulte e una marea di finocchie.
Appunto, le finocchie. La ciliegina sulla torta: per terminare l’opera cosa manca? Un ringraziamento, semplicemente. Per cui, prima di intonare Boys boys boys circondata da ballerini sculettanti e ovviamente finocchioni, con pacchi posticci e superdotati, Gaga chiede aiuto ai suoi deepest and the loyal firends: the french gay boys!
Minchia, un terremoto. Shocked Laughing

FAVOLOSA.
Ha una personalità incredibile.

Si butta a terra e, dopo un po’ di fiato, strepita I’m like Tinkerbell, I need applause to live! E ancora un momento di puro delirio fanatico. Dice che agli inizi della sua carriera le dicevano che non era brava abbastanza, bella abbastanza, che non scriveva abbastanza bene le canzoni o che non suonava, che non ce l’avrebbe mai fatta. Ma lei ha mandato tutti a fare in culo perché voleva diventare una star. E ce l’ha fatta.

L’avventura prosegue tra interlude che sembrano videoinstallazioni di arte moderna, una clip bondage e con maschera di lattice, fontane e angeli, una parte centrale da pelle d’oca al pianoforte. Brown Eyes e Speechless sono a dir poco da lacrima, seriamente.
A suonare in piedi, piegata a 90, intonando le ultime note coi tacchi e saltando sui tasti, usando i premi vinti come dildo o con allusioni sessuali a cock o double penetration, qualsiasi follia non intacca la potenza emotiva del pezzo acustico e la sua voce dal vivo è incredibile.

Alla fine arriva il nemico da abbattere. Nelle fattezze di una creature degli abissi è lui, The Fame Monster in persona che cerca di catturare la Germy con i tentacoli. Lei ci chiama in aiuto: solo i flash delle macchine fotografiche possono sconfiggerlo, scattate foto little monsters! Fino al colpo di grazia: la gaga con uno dei suoi “simboli” caratterizzanti, reggiseno e mutande esplosive. Bon nuit!

Ovviamente manca il gran finale, che dico, il finale ENORME. Basta un ooooohh ooooh e praticamente siamo tutti sotto stupefacenti in tempo zero. Entrambe le sere dopo averla amata entrare in scena negli anelli rotanti, praticamente me la sono un po’ persa da tanto ero preso a urlare, ballare, muovermi, guardare intorno il delirio che coinvolgeva tutti. Una figata pazzesca, si. Bad romance è POTENTISSIMA.

Come si dice: quando un filmato rende più di mille parole. Eccoci.


Concludendo: uno spettacolo clamoroso, a 24 anni, un album e mezzo all’attivo, vagonate di premi e questo tour. Mondiale.

Gaga rulez.

“I hate… the truth. Infact, I hate the truth so much, I’d prefer a giant dose of bullshit anyday over the truth.”

Berlino // 9.0 (o 10.0)

La verità è che non lo ricordo. Se sono 9 o 10 intendo. Ce ne dev’essere una corta che ho tentato di rimuovere, ne sono certa. Poi ormai sono anziana e le cose più vecchie le ricordo a fatica. E meno male.

Ok basta deliri.

Che posso dire di nuovo, dopo 9 visite? In realtà posso confermare lo stupore, che non cessa mai, a trovarsi davanti certe meraviglie architettoniche. Le solite cose un pò da provinciali quali siamo, che notiamo noi italiani ovvero cosa funziona bene rispetto all’Italia. Un sacco di cose, ma stavolta mi trovo a stupirmi nel museo della DDR, pensando che da noi, un museo dove si utilizzano le cose che sono esposte, si ritroverebbe vuoto o distrutto dopo una settimana. Già vedevo gruppi di studentelli a rubare manciate di chicchi di caffè.

Sono provinciale lo ammetto, ma in fondo Milano è un comune, rispetto a tante città Europee, e noi come evoluzione più o meno siamo al livello dell’uomo di Neanderthal, c’è poco da fare (non menzionatemi gli italiani intelligenti del passato perchè non vale se sono morti da più di 300 anni).

Detto questo, è stata una delle più belle vacanze della mia vita. Mai riso tanto, preso tanto freddo, camminato e visto. Mai stata così vicina alla Porta di Brandeburgo a dormire, ad esempio. Mega affarone fatto qui: http://www.booking.com/hotel/de/apartments-am-barndenburger-tor.html?label=gog235jc;sid=b63050136d708b1254d47e5de0bdfe24

Appartamento da sei, bellissimo, enorme, in una posizione che non me la sarei neanche sognata. Dalla nostra finestra del salotto (finestra enorme, in pratica il soggiorno che ho sempre desiderato) vedevamo le stanze da 1000 euro dell’Adlon e mi veniva quasi da ridere. Compagni di viaggio splendidi e paiass, i deliri sono cominciati ad Orio al Serio e non sono ancora finiti (manca un documento video di inestimabile valore in attesa di pubblicazione), visita al museo del cinema accompagnata finalmente da qualcuno che capisce le urla isteriche davanti ad un oscar o al cappello di Marlene Dietrich. Panini con aringhe alle 10.30. Ore di sonno che si contano sulle dita di una mano. Lego. AVATAR 3D (se solo riuscissi a parlarne, meriterebbe un post tutto suo, ma magari aspetto una seconda visione). La spesa. Il bagno che ha visto cose che voi umani non potete neanche immaginare. Karaoke partiti nei luoghi più improbabili, con canzoni ancora più improbabili. Milioni di foto. Citazioni cinematografiche a pioggia. Insulti a Sandra Bullock a cascata. Meryl, ora e sempre sia lodata. Ecco, così posso metterla di nuovo nel tag, visto Beps?

Di Berlino ho parlato spesso, quindi lascerei parlare un mio vecchio articolo per non scriverne uno identico. Quello che penso su questa meravigliosa città, in fondo, non è cambiato.

Ma prima, ecco qualche foto:

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BERLIN // EINSTURZENDE NEUBAUTEN

Ci sono città che non si riesce a sentire come proprie, come “casa”, non importa da quanto tempo ci si viva. E poi ci sono quelle che, nel momento stesso in cui si esce dall’aeroporto, danno quel senso di tranquillità e familiarità tipiche solo del paese in cui si è sempre vissuto.
A me è successo questo a Berlino. Non in modo così immediato però. Ci è voluta una buona settimana di odio profondo, dovuto principalmente alle abitudini alimentari locali (quell’odore di birra e kebab in metropolitana alle 8 del mattino a cui successivamente ti affezioni e senti anche quando sei a Milano), per far scattare, improvviso come la nevicata di quel giorno, l’amore.
Quando pensi di averla capita, Berlino cambia e ti rendi conto che quello che hai visto finora è solo una piccolissima parte.
E il resto… Il resto è completamente diverso.

La mia prima visita, nel 2001 in stage linguistico, fu principalmente divisa tra Friedrichshain, Lichtenberg e Mitte, con rare escursioni ad ovest, causa giovane età e terrore di esplorare qualcosa di così grande e strano come era in effetti per noi quella città. Dunque restammo più o meno dove erano le case delle nostre famiglie e nella zona della scuola. Diciamo che vidi poco.
Certo, ci portarono a Potsdam e al campo di concentramento di Sachsehnhausen, ma di tutte le visite alla città quella fu la più inutile perché come spesso succede nelle gite scolastiche, fai affidamento sul fatto che chi ti accompagna ne sappia più di te, cosa che puntualmente viene smentita dalla realtà del nulla con cui poi torni a casa.

Ma Berlino fortunatamente non ha bisogno di qualcuno che te la mostri, perché si mostra da sè.
Andando dalla scuola che frequentavamo alla mensa, ad esempio, passammo per due settimane davanti alla casa di Bertold Brecht in Chausseestrasse e al Dorotheenstädtischer Friedhof, dove sono sepolti Heinrich Mann, Hegel e Schinkel, tra gli altri, benché all’epoca fossi troppo giovane per rendermi conto dell’importanza storica di quei luoghi.

Da quella volta tornai a Berlino con più consapevolezza, e sempre più frequentemente. Vidi cambiare Berlino con ogni visita. Palazzi che prima non c’erano si ergevano alti e palazzi che invece mi ero abituata a vedere sparivano. Continua evoluzione, ma anche un onnipresente legame con ciò che è stata la sua storia. Ecco cos’è Berlino.
Dunque ti può capitare di essere in Potsdamer Platz, la parte più architettonicamente innovativa della nuova Berlino, abbassare lo sguardo e trovare a terra il muro, il suo segno, quello di dove passava. E quegli enormi grattacieli, o la cupola multicolore, spariscono e intorno a te si fa silenzio mentre immagini come doveva essere, anche solo dieci anni fa. Strade deserte, binari del tram che finivano contro il muro, intorno il nulla.
Oppure puoi passeggiare e renderti conto che proprio lì, dove stai camminando con in mano il tuo Starbucks bollente, sorgevano le sedi di SS e Gestapo, luoghi dove sono stati ideati e diretti alcuni dei peggiori crimini della storia.
Poi svolti l’angolo e tutto passa, anche se una certa aria nostalgica è difficile da ignorare almeno finché si è, nonostante tutto, turisti. Come resistere davanti al museo della DDR, entrare nella Trabant e tentare di metterla in moto, aprire gli sportelli e trovarci i pisellini Globus e i cetriolini Spreewald!?
Come è evidente, credo di essermi affezionata più alla parte est che a quella ovest di Berlino. Certo, una visita all’ultimo piano del KaDeWe è quasi d’obbligo, come anche la visione notturna della Gedächtniskirche, uno dei pochissimi edifici lasciati esattamente come erano dopo i bombardamenti della Seconda guerra mondiale, che toglie letteralmente il fiato.

Per quanto riguarda la vita sociale e artistica, Berlino è certamente il sogno di chiunque abbia un minimo di creatività. Uno dei luoghi che preferisco in tal senso è il Tacheles, centro socio-culturale tra i più noti a Berlino, 4 piani di musica, teatro, cinema, atelier e spazi per creare la propria arte, dove frequentemente si possono trovare artisti, tedeschi e non, in piena attività.
Un edificio abbandonato e poi occupato, un po’ come i nostri centri sociali. Solo un po’ più focalizzato sull’arte, sullo spirito creativo e sull’aggregazione che sull’aspetto politico/musicale e di costante lamentela sociale passiva che invece contraddistingue i nostri centri sociali.
Sarà che ho sempre impressione che in Italia la parola arte metta una paura tremenda, ma a Berlino senti e respiri una libertà di creare che non mi è mai capitato di percepire altrove.

Dalla mia ultima volta in città sono passati dieci mesi, e alla prossima ne mancano due.
Sarà la prima volta senza il Palast Der Republic, ora demolito, e nel frattempo Tempelhof (l’aeroporto del ponte aereo, dove ho avuto la fortuna di atterrare e decollare anni fa) è stato chiuso davvero.
Ma sono certa che anche questa volta troverò qualcosa di nuovo, inaspettato.

Books to Remember // Jack Kerouac, Sulla Strada

L’idea per questo post mi è venuta per due motivi. Il primo è che mi sono resa conto che l’età avanza precocemente e la memoria in alcune cose mi ha abbandonata, quindi prima che io mi dimentichi tutto, ho pensato di porre rimedio creando questo post similsettimanale.

Il secondo motivo che non è un motivo ma un’ispirazione, viene da questo post di Isa: http://alleggerisco.wordpress.com/2009/12/09/incipit/

Dunque ho deciso di prendere i libri che ho letto, tutti quelli che riesco a ricordare e quelli che ovviamente mi sono piaciuti e di postarne qualche pezzetto.

Scrivere la trama è una cosa che mi infastidisce, come per i film, e non ho la competenza necessaria a recensirli, quindi prendete questi post per quello che sono.. ovvero consigli e un modo per ricordare.

Il primo che ho scelto è “Sulla Strada” di Kerouac, perchè è quello che sto rileggendo in questi giorni. Tanti sono i motivi che mi hanno spinto ad amarlo, quelle parole “libertà” “cambiamento” “viaggio” che quando si è adolescenti sono come bandiere ma che crescendo perdono un pò del vento che le fa vibrare con vigore. Rileggendolo mi rendo conto che è innanzitutto un bel libro, scritto da dio, e nonostante il tempo passato sembra comunque un libro di fantascienza.

Una cosa che all’epoca non avevo notato o che più semplicemente non aveva colpito la mia attenzione sono i riferimenti musicali, jazz in particolare, materia nella quale ammetto una mia profonda ignoranza a cui cercherò di porre rimedio al più presto, quindi ho inserito un paio di citazioni “musicali”, magari vi verrà la mia stessa curiosità.

“A quel tempo danzavano per le strade come pazzi, e io li seguivo a fatica come ho fatto tutta la vita con le persone che mi interessano, perchè le uniche persone che esistono per me sono i pazzi, i pazzi di voglia di vivere, di parole, di salvezza, i pazzi del tutto e subito, quelli che non sbadigliano mai e non dicono mai banalità ma bruciano, bruciano, bruciano come favolosi fuochi d’artificio gialli che esplodono simili a ragni sopra le stelle e nel mezzo si vede scoppiare la luce azzurra e tutti fanno “Oooooooh!”. Parte 1, Capitolo 1

“Sapevo che a un certo punto di quel viaggio ci sarebbero state ragazze, visioni, tutto; sapevo che a un certo punto di quel viaggio avrei ricevuto la perla”. Parte 1, Capitolo 1

“A quei tempi, nel 1947, il bop impazzava in tutta l’America. I ragazzi del Loop suonavano, ma con stanchezza, perchè il bop era a metà strada fra il periodo del Charlie Parker di Ornithology e quello di Miles Davis. E mentre me ne stavo là seduto ad ascoltare quella musica della notte che è ormai il bop per tutti noi, pensavo ai miei amici sparsi per il paese e a come fossero in realtà tutti nello stesso grande cortile ad agitarsi frenetici e convulsi”. Parte 1, Capitolo 3

“Mi svegliai che il sole stava diventando rosso; e quello fu l’unico preciso istante della mia vita, il più assurdo, in cui dimenticai chi ero – lontano da casa, stanco e stordito per il viaggio, in una povera stanza d’albergo che non avevo mai visto, col sibilo del vapore fuori, lo scricchiolio del legno vecchio dell’hotel, i passi al piano di sopra e altri rumori tristi – e guardai il soffitto alto e screpolato e davvero non riuscii a ricordare chi ero per almeno quindici assurdi secondi. Non avevo paura; ero semplicemente qualcun’altro, uno sconosciuto, e tutta la mia vita era una vita stregata, la vita di un fantasma. Ero a metà strada tra una costa e l’altra dell’America, al confine tra l’Est della mia giovinezza e il West del mio futuro, e forse è per questo che accadde proprio lì e in quel momento, in quello strano pomeriggio rosso.” Parte 1, Capitolo 3

“Erano come l’uomo che usciva da sotto il macigno con la sua angoscia, anche loro venivano dai sotterranei, i sordidi hipster d’America, una nuova generazione beat della quale stavo lentamente entrando a far parte anch’io”. Parte 1, Capitolo 9

“Io ero raggomitolato nel vento freddo e nella pioggia e guardavo tutto dai tristi vigneti di ottobre nella valle. Pensavo solo a quella magnifica canzone, Lover Man, cantata da Billie Holiday; tenni un mio concerto personale tra i cespugli. “Someday we’ll meet, and you’ll dry all my tears, and whisper sweet, little things in my ear, hugging and a kissing, oh what we’ve been missing, Lover Man, oh where can you be…”. Parte 1, Capitolo 13

“E per un instante raggiunsi l’estasi che avevo sempre desiderato conoscere: consisteva nell’entrare di netto nelle ombre eterne superando il tempo cronologico e nell’osservare stupefatto da lontano lo squallore del regno mortale, nella sensazione della morte che mi incalzava spingendomi ad andare avanti, con un fantasma alle spalle che la incalzava a sua volta, e correvo verso un trampolino dal quale si tuffavano gli angeli per volare nello spazio sacro del vuoto della non creazione, nel potente e inconcepibile fulgore che si sprigionava dalla luminosa Essenza della Mente, con gli innumerevoli regni dell’oblio che si aprivano nel magico firmamento del paradiso. Sentivo un rombo indescrivibile, un fragore che non era nelle mie orecchie ma dappertutto, e non aveva niente a che fare con il suono. Mi resi conto di essere morto e rinato innumerevoli volte, senza ricordare, perchè la transizione dalla vita alla more alla vita è così facile ed eterea, una magica azione per nulla, come addormentarsi e svegliarsi un milione di volte, la totale casualità e la profonda ignoranza di tutto ciò.” Parte 2, Capitolo 10

“Poi un silenzio assoluto cadde nella stanza; una volta Dean si sarebbe dato da fare per difendersi, invece ora se ne stava zitto, ma senza chinare la testa, stracciato, distrutto e demente, proprio sotto le lampadine, la faccia ossuta e stravolta coperta di sudore, le vene pulsanti. Poi emise un: “Sì, Sì, Sì” come se ormai non facesse che introiettare incredibili rivelazioni, e sono convinto che fosse proprio così, e anche gli altri lo sospettavano e avevano paura. Era FINITO – e la fine è l’inizio della Beatitudine. Che cosa stava imparando? Faceva l’impossibile per dirmi cosa stava imparando, ed era questo che gli altri mi invidiavano, invidiavano il mio posto al suo fianco, invidiavano il fatto che lo difendessi e me lo bevessi come un tempo avevano cercato di fare anche loro. Poi mi guardarono. Cosa stavo facendo io, uno straniero, in quella dolce notte della costa occidentale?”. Parte 3, Capitolo 3

[Di questo, a dire il vero, mi sento di dover includere la versione originale perchè trovo renda molto di più. Penso sia arrivato il momento, dopo i film doppiati, di abbandonare anche i libri tradotti.]

“Then a complete silence fell over everybody; where once Dean would have talked his way out, he now fell silent himself, but standing in front of everybody, ragged and broken and idiotic, right under the lightbulbs, his bony mad face covered with sweat and throbbing veins, saying, “Yes, yes, yes,” as though tremendous revelations were pouring into him all the time now, and I am convinced they were, and the others suspected as much and were frightened. He was BEAT — the root, the soul of Beatific. What was he knowing?”

“Le nostre valigie logore erano di nuovo ammucchiate sul marciapiede; dovevamo ancora andare lontano. Ma che importava, la strada è la vita”. Parte 3, Capitolo 5

“Una volta c’era Louis Armstrong che suonava come un dio in mezzo ai pantani di New Orleans; prima di lui i folli musicisti che sfilavano nei giorni di festa e trasformarono le marce di Sousa in ragtime. Poi ci fu lo swing e Roy Eldridge, vigoroso e virile, che tirava fuori dalla tromba tutto quello che poteva dare in ondate di potenza e logica e sottigliezza, abbandonandosi allo strumento con gli occhi scintillanti e il sorriso radioso, e sventolandolo in tutte le direzioni a scuotere il mondo del jazz. Poi era arrivato Charlie Parker, un ragazzo nella baracca di legno di sua madre a Kansas City, che suonava il suo saxalto con la sordina fra i mucchi di legname, esercitandosi nei giorni di pioggia, che andava ad ascoltare lo swing del vecchio Basie e il complesso di Benny Moten con Hot Lips Page e gli altri; Charlie Parker che andò via di casa e venne ad Harlem, dove incontrò il folle Thelonius Monk e l’ancora più folle Gillespie, Charlie Parker all’inizio della carriera quando era flippato e girava in cerchio mentre suonava. Un pò più giovane di Lester Young, anche lui di KC, quel malinconico angelico incosciente che racchiudeva in sè tutta la storia del jazz: perchè quando alzava il suo strumento e lo teneva perpendicolare alla bocca e gli dava fiato, era il più grande; e man mano che i suoi capelli si facevano più lunghi e lui più pigro e rilassato, il sassofono si abbassava; finchè non si abbassò del tutto, e oggi che Young porta scarpe con la suola alta per non sentire i marciapiedi della vita, lo strumento riposa languido contro il suo petto e suona di getto frasi fredde e facili. Eccoli, i figli della notte del bop americano.” Parte 3, Capitolo 10

“All’improvviso ebbi una visione di Dean, un terribile Angelo bruciante e tremante, che arrivava palpitando verso di me lungo la strada, che si avvicinava come una nuvola a velocità incredibile, che mi inseguiva come il Viaggiatore Velato nella pianura, che mi piombava addosso. Vidi la sua faccia sopra le pianure, enorme, fissa nella sua espressione di testarda decisione, con gli occhi scintillanti; vidi le sue ali; vidi il suo carro malandato da cui si sprigionavano migliaia di fiamme e scintille; vidi il sentiero bruciato che tracciava sopra la strada; se l’apriva addirittura da sè, la strada, sopra i campi di granturco, attraverso le città, distruggendo ponti, prosciugando fiumi. Arrivava nel West come un castigo . Capii che Dean era impazzito di nuovo”. Parte 4, Capitolo 2

“Dietro di noi si stendeva tutta l’America e tutto quello che io e Dean sapevamo della vita, e della vita sulla strada. Avevamo finalmente trovato la terra magica in fondo alla strada e non ce l’eravamo nemmeno immaginata, la portata di quella magia”. Parte 4, Capitolo 5

A Road Trip to Heaven // 2

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Al risveglio ci dividiamo, Massi e Uzzo si avventurano verso il centro di Roma nonostante lo sciopero e i chilometri, io e Beps restiamo in camera a guardare programmi di cucina prima di uscire per recuperarli, trovando a sorpresa anche Esterina che ha portato l’unica briciola di Romanità nei miei due giorni (durante i quali ho tentato disperatamente di rimuovere dal mio cervello in quale luogo mi trovassi). A questo punto, causa vicini di tavolo alle prese con totani o calamari ripieni e al sugo, divento di colore verde e vengo presa da nausea devastante che passerà solo un paio d’ore dopo, appoggiata alla transenna in stato di coma, dopo un plasil un geffer e mezzo litro di Ferrarelle.. che per inciso, dall’altro ieri ha poteri curativi.

In tutto questo tempo veniamo cullati dal loop della colonna sonora di Chicago, che è sempre meglio di quella di Eyes Wide Shut per carità, ma al settimo “acuto” della Zellwegger uno comincia anche a perdere la pazienza.

Il tempo e passa e ci alziamo, un po’ infreddoliti, prendendo posto in transenna..e l’Uzzo / Timi moment ha inizio.

Mi sporgo, lo vedo, mi giro, dico “Uzzo.. c’è Timi” il che mi provoca due costole incrinate e un crescendo cacofonico che termina con “io ti amo”. Reazione di Timi “Ho sentito bene? Ti amo?” “Sì sì hai sentito bene!”Fortunatamente per lui, il nostro Uzzo non ha il tempo materiale di stramazzare al suolo quando ci colpiscono le prime gocce di pioggia e insieme a loro un urlo che mi lacera il timpano da parte di Beps.

E’ arrivata!

Chi?

Come chi?

Chi?

Lei!

Lei chi?

Meryl!

Altre urla di delirio, GLI OCCHIALI QUALCUNO MI SISTEMI GLI OCCHIALI TIRATEMELI SU AIUTO, le mani che tremano, la certezza che non verrà neanche una foto, e lei lì, eterea, non si ferma ma cammina piano, al rallentatore (Beps: hai visto? Nei suoi film il rallenty non serve, lo fa lei) ti guarda, ti saluta, ti manda baci, allarga le braccia e se le porta al cuore.

Mentre cammina.. camminiamo un po’ tutti.. avanzando in stato catatonico e lasciando alla nostra postazione cose fondamentali come documenti, soldi, carte di credito e quant’altro.. le macchine fotografiche si sollevano e scattano a caso, riuscendo comunque ad immortalare miracolosamente qualcuna delle pose davanti ai fotografi.

Poi l’illuminazione: ora deve pur entrare, no?!

Scatto come mai in vita mia, con i jeans ad un passo dal cedere alla gravità, sempre con tutti i miei possedimenti 50…100.. 200 metri e poi senza rendermene conto, mi trovo davanti davanti tre file di persone, vado avanti e poi niente, un posto vuoto che tutt’ora non so spiegarmi, solo un nastro elastico che mi divide da Lei.

E ancora una volta non riesco a proferire verbo ne a muovermi, mi passa davanti, finisce tutto.

Inspiegabilmente mi rendo conto di non essere morta, ma tutti quelli intorno a me sono tipo paralizzati e mi trovo incastrata tra una schiera di rincoglioniti che fissano il vuoto, dalla quale esco imprecando per raggiungere gli altri e dare il via al solito urlo OHMIODDIOMIODIO post visione!

Ma proprio in quel momento, quando pensavamo che meglio di così non poteva andare… chi vediamo arrivare? Syusi Blady.

Ebbene sì. Proprio lei.

Ora, va detto che, come per altre cose e personaggi, il nostro entusiasmo e adorazione non sono dovuti alle cose belle che questa donna ha fatto (sempre amato Turisti per Caso & Co) bensì per la cosa più trash di tutte: Tocca Toccami.

Quindi le corriamo dietro e Massi e Uzzo come in un programma prestabilito si mettono in posa, mentre tutto quello che riesco a dire mentre scatto la foto è “No ma.. Lo sa che Tocca Toccami è un capolavoro? E’ la nostra canzone preferita, la balliamo tutte le domeniche!” Inizialmente la nostra non può fare altro che sorridere ma pochi secondi dopo, tornando quasi indietro verso di noi con aria incredula chiede “Ma Tocca Toccami?”

Eh sì Syusi, tu l’avrai rimossa ma noi proprio no.

Spossati da cotanto delirio decidiamo di tornare in albergo per riposare, nelle due ore che ci separano dalla visione di Julie & Julia, salutiamo Esterina che tenta di tornare a casa nonostante lo sciopero (permettere uno sciopero negli stessi giorni di una manifestazione come quella della Mostra del Cinema che aspira a diventare la più importante d’Italia è una cosa geniale che meriterebbe un capitolo a parte) e ci avviamo, senza alcun presagio di ciò che sta per avvenire.

Tutto ha inizio con un semplice proposito: ragazzi dobbiamo fare le foto con le magliette della Meryl. Tale proposito degenera immediatamente quando inizio a spogliarmi e il bastardone di Uzzo inizia a scattare a raffica, producendo robe che neanche le copertine dei film porno anni 80, con tanto di pizzi e tendone rosso di velluto. Temo però l’idea successiva sia venuta a me, dicendo qualcosa tipo “dai facciamo finta di fare una mega orgia”. Niente orgia alla fine ma tutti a trombare (per finta.. lo specifico nel caso sconosciuti dovessero leggere senza aver visionato le foto) me per il servizio fotografico più esilarante che mi sia mai capitato di fare.. capelli tirati, craniate contro le spranghe della testiera del letto, colpi di reni incontrollabili, e probabilmente le uniche foto in mio possesso, dalla nascita, in cui rido nel vero senso della parola. I veri uomini della spedizione si alternano al mio cospetto finchè, sudati più di prima e diciamocelo anche parecchio puzzolenti, ci rendiamo conto che Julie & Julia ci aspetta!

Una volta all’auditorium Beps e Massi vengono colti da una crisi di fame che li fa scomparire dalla mia vista nel giro di due secondi, quindi rimango indietro con Uzzo che al telefono descrive praticamente urlando l’incontro con Timi avvenuto qualche ora prima… peccato che Timi si trovi ad un tavolo a 3 metri da noi!

Do uno strattone a Uzzo che riattacca in faccia a chiunque avesse al telefono ed entriamo al bar, dove tento di fargli capire cosa deve ordinare senza successo, perchè a quanto pare 2+2 fa tre quando l’ormone prende il sopravvento, e ci sediamo al tavolo proprio accanto a quello di Timi.

Per circa una ventina di minuti tento di mangiare in mezzo ai deliri di Uzzo che avendo ormai perso qualsiasi freno inibitorio mangia fissando Timi, con la macchina fotografica a portata di mano e continuando a ripetere in modalità rain man “ora mi alzo e gli chiedo se facciamo una foto.. si ora mi alzo.. no davvero prima che se ne va mi alzo e glielo chiedo”, al che decido che un tramezzino bollente bresaola grana rucola non può essere rovinato, giammai.

Mi alzo, vado dal gentile Filippo scusandomi per il disturbo e chiedendo per favore di fare una foto con Uzzo per porre fine alle mie sofferenze e lui, a sorpresa, si alza con un entusiasmo inaspettato rischiando di uccidere Uzzo, felice, troppo felice.. ma felice che levati!

Lo abbraccia, chiede ad Uzzo di stringerlo più forte, chiede se per caso sta tremando (e lui ormai fuori controllo risponde “Sì, ma non per il freddo”), lo ristringe, lo abbraccia una volta, due volte, ma non da fan, quasi da amico, lo ringrazia gli parla.. roba che ad essere Uzzo c’era da rimanere secchi.

Poi si presenta (lui a noi, badate bene!), mi bacia, risaluta per la settantesima volta quel che resta di Uzzo e si siede di nuovo al suo tavolo.

E’ quasi ora di entrare, ma si spengono le luci, parte Carmina Burana e le creature di Renzo Piano si infiammano. Per me, che adoro nell’ordine l’Auditorium, Carmina Burana e i fuochi d’artificio con tutta me stessa, una sorpresa meravigliosa.

Mi inchino agli organizzatori perchè i fuochi d’artificio che partono a ritmo con la musica, in un crescendo fino al coro finale sono stati qualcosa di indescrivibile, roba da pelle d’oca e ringraziare il cielo di essere presente.

I miei compagni, che sono l’eccezione che conferma la regola che i ghei sono più sensibili e romantici, ovviamente sono spariti alla velocità della luce, quindi corro a recuperare almeno Uzzo che finge interesse solo perchè inebriato da Timi e guarda con me il finale!

Julie & Julia.

Innanzitutto, avevamo i posti migliori della sala.

Anzi, io avevo il posto migliore della sala perchè avevo il vuoto davanti e quindi ho visto il film praticamente sdraiata, scalciando ogni due per tre.. cioè ogni volta che Meryl apriva bocca! Certo non ci troviamo davanti a La Mia Africa, ma il film raggiunge in modo ottimo il suo scopo, è divertente, spensierato, tutti gli attori sono bravissimi (Amy Adams potrei facilmente adorarla, se va avanti così) e Meryl. Oh Meryl.

Io davanti a cotanta divinità e genio sono a corto di aggettivi.

Che una donna sia capace di fare e ridere piangere in egual misura e con lo stesso successo non credo sia mai successo nella storia del cinema, e sono certa non succederà più.

L’unica cosa che mi sono persa volutamente, per il divertimento di Beps, sono state le scene d’amore con Stanley Tucci dove mi sono coperta gli occhi come se stessi vedendo Saw, perchè Dio che fa certe cose, proprio non si può vedere.

Si accendono le luci e la nostra avventura all’auditorium per quest’anno è terminata.. ma come poteva terminare se non con gli ultimi momenti di pagliaccitudine?

L’atrio è deserto, le porte che danno sul red carpet aperte, e usciamo da lì. Uzzo inizia a scattare foto a caso, io trascino i piedi perchè è bagnato e buttarmi per terra non sarebbe una buona idea, salto e mi metto in posa esponendomi al pubblico ludibrio…ma chissenefrega, life is beautiful tonight.

Tornati in hotel chiacchieriamo un po’, facciamo commenti ispirati sul film appena visto nemmeno si trattasse di un film di Von Trier e andiamo a dormire, per l’ultima volta… facciamo colazione, un’ultima volta (che momenti assurdi, colazione in reception, sedie mancanti, vassoi su scrivanie di cartone) e poi via, verso casa.

Il viaggio di ritorno è passato in un attimo, ma alcune perle sparse vanno menzionate, come ad esempio le visioni di orsi bianchi da parte di Beps nel bel mezzo dell’Umbria, il karaoke di I Will Always Love You e I Have Nothing che raggiunge livelli di cacofonia rari, Uzzo isolato telefonicamente da tre giorni che riceve più telefonate durante il viaggio di ritorno che in tutta la vita, Beps e la sua coreografia di Million Dollar Bill, Massi che tossisce e scatarra e balla e canta e il tutto a 140 all’ora, io che mi prefiggo di prendere qualcosa di leggero all’autogrill e invece vado di Patacrò, Arancini e pizza con i wurstel, l’estate che ci accoglie una volta usciti e che ci accompagnerà fino a milano, giusto per farci morire soffocati e rompere il cazzo proprio!

Lasciamo Beps nel paese con il nome più improbabile di tutto il lodigiano, Somaglia, e qualche minuto più tardi ci arriva un sms da parte sua:

“Geremia, 14c-29e “E dopo aver visto Dio tornate e meditate, grande è stata a sua visione, enorme ora la vostra responsabilità. Diffondete il verbo, seminate di amore il suo cammino.”

Io ovviamente ci casco subito, Massi mi fa notare che la bibbia non è la battaglia navale e in effetti il nostro Beps ammette di essersela inventata.. guidando.

Più tardi cercando ho trovato nella bibbia frasi simili ma nessuna rende l’idea di cosa abbiamo provato, quindi per me resterà sempre la versione originale.

Arriviamo a Milano, finalmente, e cosa possiamo fare se non fermarci a comprare i biglietti per Whitney? Niente appunto, dunque via, 345 euro e tante pipette di crack nuove per la nostra rediviva Whitney!!

Il prossimo ad essere abbandonato sul ciglio della strada è Uzzo, poi io ultima superstite saluto Massi.. il viaggio è realmente finito e ed è ora che si fa spazio la malinconia.

Ho già parlato una volta di cosa significhi per chi ama il cinema vivere questi momenti, e viverli con qualcuno che ha la consapevolezza di ciò che sta succedendo, che è felice quanto te per ogni minima (agli occhi degli altri) cosa, fortuita o meno, qualcuno che come te dal cinema prende la vita ed è talmente al settimo cielo nel vivere un’evento del genere (o anche solo una visione della cerimonia degli Oscar) che da fuori sembra un pazzo. O forse lo siamo davvero, dei pazzi, chi può dirlo.

Forse siamo dei folli.Ma se questo è il risultato della follia, sono orgogliosa di essere folle e di conoscere ed amare altri tre folli.I love you guys.

A Road Trip to Heaven // 1

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Premetto che sarà un po’ lunga, se volete rinunciare potete farlo subito.

Già, perchè questo non è un riassunto del nostro viaggio verso La Mecca ma un qualcosa da conservare per non dimenticare, e sarà quanto più dettagliato possibile.

Questa è una storia che parte da lontano, nel mese di aprile.

In un giorno apparentemente uguale agli altri, ricevo un sms da parte di Beps che suonava più o meno così “Oddio… ahhhhhhhhhh.. oddio…. la meryl… alla festa del cinema di Roma!!”, sms che scatena risposte deliranti e l’inizio di un ansia che sarebbe durata 6 mesi.. Meryl Streep, il nostro unico e solo dio, l’attrice vivente più grande al mondo, sarebbe venuta in Italia, e l’avremmo vista.

Da quel momento è stato un susseguirsi di progetti, sogni, dita incrociate, lavori rifiutati o rimandati perchè “poi non mi danno le ferie”, mesi ad immaginarsi cosa dire, cosa fare, quale dvd portare e soprattutto.. cosa scrivere nella lettera che avremmo tentato di darle?

Mesi che in realtà sono volati, perchè ad un certo punto mancava una settimana, la lettera era ancora all’inizio, decine erano state iniziate e cancellate, gli orari, i giorni era tutto una sorta di nebbia in cui nessuno aveva il coraggio di avventurarsi!

Così senza rendercene conto siamo lì, la sera precedente la partenza, a guardare X Factor per distrarci, a lanciare anatemi contro Francesco Facchinetti, ad urlare incoraggiamenti alla Whitney e finalmente.. a letto per ben due ore e mezza di sonno.

Sveglia all’alba, ore 4.04, con 5 inizi di Poker Face e un paio di Halo, colazione paiass che ritarda la partenza dalle 5 alle 5.45, ed eccoci in strada, con Pussy dei Rammstein come colonna sonora, oscuro presagio di cosa avrebbe avuto luogo il giorno successivo nella nostra stanza d’albergo.

Del viaggio di andata posso raccontare poco, devo essere entrata in coma a Melegnano per svegliarmi a Firenze, in coda sotto una pioggia che neanche in The Day After Tomorrow, ma ricordo benissimo, dopo pochi minuti, l’arrivo della telefonata del proprietario del B&B che ci chiedeva, molto gentilmente, se per caso poteva infastidirci avere una camera sola fino alle ore 20 perchè, poverino, doveva uscire, aveva un impegno.

Alle ore 20? In 4 in un letto semi matrimoniale e una doccia sola prima di incontrare Dio? Penso che dalla sua cornetta siano usciti dei fulmini e un po’ mi ha fatto pena, perchè la conversazione è terminata con “beh vedo di organizzarmi”.. beh, vedi tu!

Il viaggio è proseguito con una fermata in autogrill per un sontuoso panino con speck e funghi alle 9 del mattino, un incontro inspiegabile e un tripudio di poliziotti per la felicità dei miei compagni di viaggio…. e qualche ora dopo, eccoci a Roma!

La stanza non è ancora pronta, ovviamente, quindi dormiamo letteralmente pressati ad incastro per un’oretta (con Uzzo che spuntava di almeno 30 centimetri in lunghezza e mi chiedo tutt’ora come abbia fatto per le due notti successive) per poi prepararci per la serata.. ma prima riesco a regalare una perla quando improvvisamente mi viene in mente Pomi D’ottone e Manici di Scopa e la signora Fletcher e il nostro letto che vola fuori dalla finestra!

Menzione d’onore per il tizio che ha decorato l’albergo perchè era spettacolare, un incrocio tra il finale del silenzio degli innocenti e pollock, una vera meraviglia.

Dunque verso le 5 ci avviamo a piedi, e al nostro arrivo veniamo accolti dalla colonna sonora di Eyes Wide Shut. Intera. In loop. Ormai l’ansia a quel punto era ad un livello tale che ci siamo passati imodium come caramelle.

Dopo una cena a base di panini senza sapore alcuno mangiati solo per non svenire dal momento che lo stomaco era chiuso ermeticamente, avviciniamo Anna Praderio prima, Piera Detassis e infine Anselma Dell’Olio con un entusiasmo paragonabile a quello delle fans di Twilight nonostante fossimo noi gli unici ad averle riconosciute, Massi e Uzzo posano, io fotografo facendo battute improbabili che fanno si che le tizie fotografate abbiano delle smorfie agghiaccianti e soprattutto agghiacciate. Va detto che poco dopo assistiamo alla carica tipo morte di Mufasa ne Il Re Leone della nostra Anselma, che nonostante avesse biglietto e posto assegnato (peggiore del nostro, sia chiaro) è passata letteralmente sopra un paio di vecchiette e al tizio che strappava i biglietti che l’ha anche ripresa pubblicamente.. seguita dalla povera Palombelli ormai color tappeto rosso per l’imbarazzo. A proposito.. che cosa meravigliosa è stata vederla ignorata sulla panchina mentre ricoprivamo d’attenzioni l’Anselma? Di più.

Prendiamo posto.

4 fila. Centrale, ma centrale nel senso di centrale proprio. I minuti passano, nel frattempo lei sfila sul tappeto rosso autografando anche i parafanghi delle macchine di passaggio, io prendo gocce calmanti, quando dal palco viene annunciato che secondo i comandamenti di Nostro Signore, verrà proiettato prima il documentario “I knew it was you” e successivamente ci sarà l’Incontro.

Devo ammettere che la cosa mi ha infastidita, non sapendo di cosa parlasse il documentario, e questo dimostra, come al solito, che il Signore è saggio, perchè se lo avessero proiettato dopo probabilmente non sarebbe rimasto nessuno.

In realtà è un lavoro splendido, prodotto dalla HBO, che onora la vita e i (putroppo pochi) ruoli interpretati da John Cazale. Non mi sono mai voluta addentrare nella vita privata della Meryl devo dire, ma sapevo che era fidanzata con un attore successivamente deceduto.. sono rimasta sorpresa dunque nello scoprire che si trattava proprio di lui.

Cazale ha in totale interpretato 5 film, e non proprio cinque film qualunque: Il padrino e il Padrino parte seconda (dove interpretava il fratello di Michael /Al Pacino…e il titolo del documentario “I Knew it Was you” deriva proprio da una battuta di questo film, detta da Michael al fratello traditore) , La Conversazione, Quel Pomeriggio di un Giorno da Cani e Il Cacciatore, e proprio durante le riprese di quest’ultimo gli è stato diagnosticato un cancro che l’ha ucciso prima della fine delle riprese.

Nel documentario diversi attori che hanno lavorato con lui (Gene Hackman, Al Pacino, De Niro e la stessa Meryl, tra gli altri) raccontano il suo modo di lavorare, il suo carattere, mentre attori più giovani spiegano il perchè, nonostante i pochi film, sia uno degli attori da cui traggono più ispirazione.

Meryl era fidanzata con Cazale e lo è stata fino all’ultimo..devo ammettere che la parte in cui Al Pacino racconta che il suo ricordo più bello è l’amore che traspariva nel gesto di accompagnare un uomo verso la fine mi ha spinto al limite delle lacrime e mi ha dato un altro motivo per provare stima e adorazione.

Si accendono le luci.

Non c’è neanche il tempo di commentare quello che abbiamo visto, è il momento.

Viene presentata come la più grande attrice al mondo (“più brava” in realtà, che è un aggettivo orripilante) ed eccola lì, che appare sulla mia sinistra. Regale, immensa, luminosa.

D’istinto, mi alzo in piedi. E ci siamo io e lei e basta, non ricordo di aver sentito applausi ma una sorta di fruscio prima lei trattenesse a stento la commozione e io lasciassi invece la mia avere il sopravvento per qualche secondo.

Era lì davanti a me, la donna che ha cambiato il mio modo di “sentire” il cinema con “La mia Africa”, mi ha fatta ridere con Death Becomes Her e She Devil e soprattutto… colei che è stata la Clarissa di The Hours. Non lo so perchè questo film sia così poco citato e francamente mi interessa relativamente ma è un film che mi ha segnata, e la sua interpretazione la trovo semplicemente magnifica. Ecco io la vedevo lì e rivedevo quei movimenti che mi sembravano così familiari..le mani, le espressioni del viso. E quella risata.

Ho stretto la mano di Beps in quel momento, sussurrando “ora posso morire felice” perchè seriamente, io con quella risata mi ci sono risollevata il morale un numero imprecisato di volte.

Non credo di aver mai studiato così a fondo ogni millimetro quadro di una donna in vita mia.. cinque dita (“Visto Beps.. ha cinque dita? Eh? Sì sì, ha cinque dita!!) , le dita l’anello le scarpe le gambe il vestito la spilla i capelli i denti le labbra….gli occhi.

E quel profilo dannazione, di una bellezza paralizzante!

L’incontro al contrario di come avevo immaginato era organizzato molto bene, spezzoni dei suoi film alternati a domande o commenti in merito.

Ecco.. penso che guardarla riguardarsi durante lo spezzone scelto di Kramer Vs Kramer (la scena in cui lascia Hoffman), una lacrima che scende e lei che si asciuga il viso…. non c’è niente che io possa aggiungere per far capire cosa significhi una cosa del genere.

Si è scoperto, inoltre, come se ce ne fosse bisogno, che è dotata di poteri soprannaturali.

A quanto pare è tipo circondata da un campo elettromagnetico che genera interferenze e distrugge gli elettrodomestici (ha detto di aver comprato un iphone e due computer tutti misteriosamente deceduti) dunque quando per l’ennesima volta durante una sua risposta nell’auditorium si è diffuso il suono dell’interferenza è sbottata in un “oh it’s me again it’s me!!I’m gonna go to NASA!”

Inutile che io dica che, risata per la battuta a parte (tra l’altro seguita da “maybe it’s because i’m wearing diamonds” e da un’espressione di finta modestia favolosa), l’unica cosa a cui ho pensato è stata la scena di lei che entra in casa di Richard esclamando “it’s meeeeee”. The Hours, again.

L’incontro è andato avanti così, con risposte lunghissime e traduzioni ancora più lunghe che però hanno avuto il pregio di allungare la sua permanenza, ma ad un certo punto e inaspettatamente, è tutto finito.

Si alza e succede l’irreparabile…rimango incastrata tra vecchie immobili e sedute, scavalco una poltrona con agilità da pachiderma lanciando contro persone innocenti zaino giacca e macchina fotografica, insultando una povera tizia in carrozzina e soprattutto il suo cane.. ma niente da fare. E’ troppo tardi.

Firma autografi, ma esce dalla parte opposta.

Maledizione.

Disdetta.

Depressione.

Esco dall’auditorium con lo spirito (e il volto, temo) di un condannato a morte, maledico Massi (a cui voglio tanto bene..e visto che stai leggendo, sappi che ti voglio tanto bene : )) ) che è stato l’unico a riuscire ad avere la sua firma su “Angels in America” (sono una persona molto generosa e altruista… ma non in questo caso) e decido che no.. non lo posso vedere il film dei Coen in questo stato.

Ora prima che pensiate che sia totalmente disturbata (ovviamente se non siete arrivati a pensarlo a questo punto, cosa di cui dubito), la cosa che mi ha uccisa non è stata non avere l’autografo cosa che onestamente mi interessa poco, ma il non essere riuscita a darle le lettere che io e Beps abbiamo scritto.

Beps mi raggiunge insieme agli altri e dopo avermi dato le chiavi della stanza assecondando il mio delirio mi fa capire che cazzo, l’abbiamo avuta davanti un’ora, chissenefrega!!E aveva ragione!!

Dunque seppure con umore ancora grigio nero decido di entrare e sorpresa: i Coen sono in sala!

Vengono presentati dopo Rossella, e non so se mi ha dato più soddisfazione vederli lì, e sapere di avere avuto un’occasione speciale oppure i fischi che hanno seguito la sua presentazione.

Inaspettata insurrezione dei cinefili comunisti.

Che goduria.

Il film mi è piaciuto, sarà che era di un pessimismo più nero del nero e io ero nello stato più pessimista dell’universo, sarà stato merito del mio cinismo, ma mi sono divertita.

Il primo giorno termina con noi che cerchiamo invano del cibo nel tragitto dall’auditorium all’albergo, pregando per un qualsiasi zozzone a quanto pare a Roma, o in quella zona INESISTENTI.

Ok.. lo divido in due parti così potete andare in bagno, fumare una sigaretta, bere una tisana o la citrosodina, quello che vi pare : ))